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Il caos creativo della cucina targata Antonio Bufi

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a cura di Nicola Carbonara

Sapete cosa hanno in comune John Zorn, i Lounge Lizards, Richie Hawtin, Ennio Morricone e i Korn? Molto probabilmente nulla o forse, a vederci (anzi, a sentirci) a fondo, tutto. Fatto sta che in una chiacchierata, a parlare di questi “mostri” della musica, è venuto fuori un dipinto di quella che è la cucina e la personalità di Antonio Bufi.
E si tratta di un dipinto tutt’altro che compiuto, quanto piuttosto un acquerello in “espansione”, perchè a chef Bufi gli appellativi, quelli definitivi, proprio stanno stretti. Quanto è più vicino alla realtà pensare a una personalità poliedrica, dai contorni fluidi, in continuo fermento.
E proprio dalla fermentazione, che custodisce in sè l’anima dell’eterno movimento in cucina, inizia il racconto di Antonio Bufi.
“Insieme a Lucia Della Guardia, compagna professionale e di vita, ho cominciato ad interessarmi alla cucina naturale all’incirca una decina d’anni fa, sia per un’esigenza personale sia perché ci sembrava giusto iniziare ad avere un approccio più etico al nostro lavoro. Il giusto apporto di cibo all’interno del corpo permette quel benessere che non è solo fisico ma mentale. Inoltre, le germinazioni, così come le fermentazioni, apportano organismi probiotici e prebiotici che rafforzano e innalzano le nostre difese immunitarie, con tutto quello che ne consegue. La fermentazione è una tecnica che si perde nella notte dei tempi, vedi la colatura di alici o la birra o i crauti. Oltre a permettere al cibo di conservarsi a lungo, lo trasforma periodicamente nel gusto, aggiungendo un “twist” in più al sapore complessivo di un piatto o di una bevanda. Inoltre permette l’utilizzo anche di quello che viene ritenuto materiale di scarto (come le bucce o i noccioli, per esempio) favorendo una “cucina circolare” e quindi permette di avere un approccio etico al modo di trasformare i cibi. Ma per arrivare a fare questo, bisogna studiare tantissimo la chimica degli alimenti e fare tante prove, sperimentare…”.
La sperimentazione e lo studio sono due elementi imprescindibili dell’approccio di questo chef pugliese che, come molti altri chef della sua generazione, ha incontrato la cucina osservando sua mamma dietro i fornelli e custodendo dall’infanzia il profumo della buccia di limone nella crema pasticcera.

In realtà – racconta – la svolta vera e propria l’ho avuta quando un giorno sono rimasto in casa con una cuginetta e abbiamo preparato il pranzo per i nostri genitori. In quel momento ho capito cosa avrei fatto nella vita”.
Classe 1978, Antonio Bufi ne ha avuti di maestri, ognuno dei quali gli ha trasmesso qualcosa: “Per me la cucina è un luogo di aggregazione e condivisione sia di vita che di esperienze. Da quando ho iniziato a fare lo chef e quindi a gestire una brigata di cucina, ho sempre avuto una visione gerarchica orizzontale, ognuno ha da dare qualcosa all’altro basta saper ascoltare con rispetto, dal grande chef all’ultimo dei lavapentole (che per inciso per me rappresenta la figura più importante all’interno della cucina); a proposito di questi, tempo fa due lavapentole dello Sri Lanka, Sandro e Ravi mi hanno insegnato a fare una zuppa di pesce con il cous cous spettacolari, così come un’altra ragazza che faceva le pulizie, originaria della ex Jugoslavia mi ha insegnato a fare le ciliegie candite, perché in fondo siamo questo, la summa delle esperienze vissute e che tendiamo a scambiarci. Al di là di questo, i miei più importanti maestri sono stati Salvatore Bufi e Giuseppe Todisco, i primi con i quali ho lavorato e che mi hanno dato l’imprinting: uno mi ha fatto innamorare della materia prima e l’altro mi ha fatto capire l’importanza del risvolto culturale nella creazione di un piatto. Poi Gualtiero Marchesi che ho incontrato quando ero già “grande” e mi ha fatto scavare in profondità nel mio voler continuare a fare il cuoco. Infine Moreno Cedroni, che mi ha letteralmente “raccolto” in uno dei periodi più difficili della mia vita e mi ha fatto diventare quello che sono adesso”.
Da ognuno di loro, ci spiega, ha imparato qualcosa di prezioso: la determinazione, la costanza, la curiosità, il metodo, l’approccio giocoso, il prendersi cura dei fallimenti per guardare oltre (con un bagaglio culturale elevato sulle spalle) e il cercare di essere sempre due passi avanti.
Parlare di cucina con Antonio Bufi è parlare necessariamente di tanto altro, in un viaggio tra arte, libri, canzoni, pensieri, filosofie e terre lontane. Il tutto avviene in maniera naturale, spontaneamente, senza forzature. Ogni argomento diventa spunto per una riflessione o un’idea, una sperimentazione o una semplice battuta. La cucina per Antonio Bufi non è soltanto un lavoro, è davvero parte integrante della sua personalità estrosa, creativa, geniale, irriverente, straordinariamente intensa.
Non è un caso, forse, che questo suo modo di essere e di vivere il suo lavoro, lo ha portato a ricevere l’appellativo di “chef anarchico”.
In realtà tutto nasce da una definizione di Henry de Toulouse-Lautrec che ripeteva sempre Marchesi – racconta – e che poi abbiamo usato come didascalia in apertura del nostro Menù: ‘in ogni arte, e ciò vale anche per la cucina, la più grande raffinatezza consiste nella sintesi e nella semplicità, evidentemente bisogna rifarsi alla tradizione, ma bisogna dimenticarla senza tuttavia tradirla per negligenza o per non volerne tenere conto. È così che si diventa dei cuochi senza pregiudizi, degli anarchici che nella creazione di un piatto riconoscono soltanto la legge dell’equilibrio imposta dalla natura’. Anche se non amo molto le definizioni, questo appellativo non mi dispiace, ma non nel significato che spesso viene accomunato alla parola anarchia. Mi riconosco invece nel caos creativo del mio modo di cucinare, ma che per forza di cose deve avere una base solida per poter dare dei risultati. Come i musicisti jazz, che ad un certo punto aprono una finestra per l’improvvisazione: se non hai studio e metodo alle spalle, rischi di fare una porcheria. In questo caso bisogna partire da una conoscenza delle tecniche, delle radici della cucina, della tradizione, del perché si è arrivati a un determinato piatto. Solo allora lo si potrà trasformare o si potrà creare qualcosa di nuovo nel pieno rispetto di quello che la natura ci impone. Se un determinato pomodoro raggiunge il massimo del suo splendore gustativo a luglio, lo uso solo a luglio, inutile trovare un surrogato da usare tutto l’anno. E così, i nostri menù degustazione si chiamano “anarchie dello chef” nel senso che spesso decido io cosa far mangiare a chi li sceglie, in base all’estro del momento, a qualcosa che si è sperimentato ed è fuori carta o in base anche alle esigenze del commensale”.

L’anarchia ovvero la libertà di creare in armonia con la natura è una filosofia che traspare dai piatti di Bufi in modo inequivocabile. Una delle sue creazioni più caratteristiche è
“Risotto con Trippa di Pesce Veloce del Baltico”. “Nasce da una canzone di Paolo Conte presente nell’album ‘900 – racconta – ed è un risotto con trippa di baccalà, borragine, riso rosso soffiato e un’emulsione di limoni conservati sotto sale. Un piatto a cui sono molto affezionato, che crea nel palato un flipper di sapori… in pratica le papille gustative impazziscono: dolce, sapido, morbido, croccante, citrico, fresco, un trip vero e proprio che mi è venuto in mente mentre canticchiavo quella canzone”.

Poi ci parla di un altro suo piatto “Radici? Le mie Radici sono su di Me”, un piatto fatto esclusivamente con tuberi, radici di bieta, di cicoria, di prezzemolo, topinambur, pastinaca, sedano rapa, scorzonera, mandorla fresca macerata nell’assenzio, tutto cotto in maniera differente per avere diverse consistenze nel piatto. “Questa preparazione non è mai uscita dal nostro menù e abbiamo visto persone tornare letteralmente alla Terra dopo averlo mangiato, commuoversi…quando questo accade per noi è una meraviglia. Un piatto nasce dal bisogno di raccontare un territorio, una Puglia spesso amara anche nei sapori e nasce come dichiarazione d’intenti e di identità, di appartenenza…”.
Un concerto di sapori e consistenze, un tripudio di significati e citazioni che rimandano al mondo della musica o della letteratura o del cinema: “Molti dei nostri piatti nascono da suggestioni scatenate dall’ascolto di una canzone o dalla lettura di un libro o da un film. Per esempio, uno dei nostri piatti cult è risotto con trippa di “pesce veloce del baltico” da una canzone di Paolo Conte, o la nostra seppia si chiama King Ink che è il soprannome di Nick Cave. Un prossimo piatto sarà ispirato al petto d’anatra nella scena iniziale di American Psycho. E poi la letteratura è piena di riferimenti enogastronomici, vedi Isabel Allende o il Commissario Maigret (per non parlare di Montalbano o Buzzati)”.

E siccome è vero che dietro un grande uomo c‘è sempre una grande donna, Antonio ci parla di della sua compagna, Lucia Della Guardia: “Danzatrice professionista, laurea in Giurisprudenza, origini murgiane, appassionata di cucina, quando l’ho incontrata aveva già bazzicato in qualche ristorante come cuoca. Mi dice “voglio imparare”, allora per 8 mesi la metto a fare solo julienne, brunoise e mire poix di verdure e uova in tutte le maniere possibili e immaginabili (naturalmente anche altro ma in minima parte): è diventata una macchina da guerra! È la persona che ha dato il via al mio lavoro sulla parte vegetale e insieme, già dieci anni fa, iniziamo a lavorare con fermentazioni, germinazioni, disidratazioni, alimentazione prebiotica e probiotica, mixology.
Quando abbiamo preso in gestione il ristorante Le Giare era il mio braccio destro in cucina ma poi ci siamo accorti che quello che facevamo aveva bisogno di essere raccontato in sala in un determinato modo. Così è passata dall’altra parte e devo dire che ne è valsa la pena. È anche una Sommelier di Sake, bevanda che amiamo in maniera sfegatata e che servivamo in abbinamento (ma anche nella preparazione di alcuni piatti) insieme ai vini naturali, cocktails, infusi e diversi kombucha che lei stessa prepara. Molti dei nostri piatti li concepiamo insieme, alcuni sono delle sue idee che poi cerco di realizzare come il Riso Rosso Germinato con More e Gelsi Fermentati e Senape di Digione, altri ancora sono pensati da me e poi devono avere la sua approvazione. Spesso mi rimprovera – prosegue sorridendo – perchè io sono troppo estremo a volte in cucina, ma non riuscirei a lavorare senza di lei. Lei è musa, è cuore, è cervello dei miei piatti”.

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Ad Antonio Bufi abbiamo fatto la domanda che spesso rivolgiamo ai nostri intervistati: immagina di “comporre” uno chef partendo dalle caratteristiche di altri cuochi che hai conosciuto o che ammiri particolarmente…
“La “follia” di Marco Pierre White, l’anima di Alex Atala, la visione di Renè Redzepi, la metodologia di Moreno Cedroni, la passione di Mauro Uliassi, la creatività di Albert Adrià”.

Un piatto, per essere perfetto cosa deve avere e cosa non deve assolutamente avere?
Deve avere un’anima, deve vivere di luce propria, deve permettere al commensale di fare un viaggio verso un “altrove”, deve essere sincero. Non deve essere trascurato e non deve essere privo di amore.

L’Oriente ti ha insegnato tanto professionalmente. Qual è la cosa più importante che ti porti dietro da quei viaggi?
La dedizione al lavoro (e la pazienza) e il rispetto per la materia prima.

Qual è, secondo te, il modo migliore per apprezzare un piatto? Qual è l’atteggiamento che le persone dovrebbero avere per fare davvero un’esperienza gastronomica unica?
Il modo migliore è sedersi a tavola senza pregiudizi e aspettative, con il cuore aperto e con un pizzico di curiosità attiva per lasciarsi trasportare in un viaggio fatto di sapori e
suggestioni. E spegnere il telefonino!

Quale chef è, a tuo parere, oggi un avanguardista della cucina?
Lo è stato certamente Renè Redzepi, così come Ferran Adrià. Oggi, secondo me, manca un punto di riferimento reale, ma stiamo attraversando un periodo molto particolare…

Il tuo sogno nel cassetto?
Aprire un ristorante tutto mio.

La cucina oggi…verso quale direzione dovrebbe andare?
Verso una maggiore etica e consapevolezza. Deve vivere NEL territorio e non può prescindere da esso. Perché un ristorante che offre una buona cucina deve anche essere cardine per la micro economia e quindi aiutare e convivere con i piccoli artigiani (dai creatori di ceramiche ai contadini ai pescatori).

Se non fossi diventato chef, cosa avresti fatto?
Chissà…forse l’architetto/designer o il membro di una band “punkroccherroll” ma mi sarebbe piaciuto anche aprire un negozio come quelli che c’erano quando eravamo bambini, uno di quei bazar in cui trovi di tutto, dal supersantos alla bombola del gas alla tavola per stirare…straordinario!

Progetti nell’immediato futuro?
Cercare di realizzare il sogno nel cassetto.

Ph. Credits: Ezio D’Onghia  – Fabio Ingegno

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