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Torta al testo. La tradizione “a spasso” coi tempi

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a cura di Valentina Rocca

Prodotto della tradizione umbra, la torta al testo racchiude un sapore e un sapere antico e la modernità di un cibo che ha saputo reinventarsi per restare al passo con i tempi e, come l’araba fenice, è letteralmente rinata dalle sue ceneri.
Proprio così, perché ancora oggi, come avveniva un tempo, è sotto la cenere che viene cotta questa torta, che in realtà è una focaccia, preparata con un impasto povero formato di sola farina, acqua, bicarbonato e sale, e poi stesa e cotta secondo il metodo tradizionale su di una piastra circolare, oggi realizzata in ghisa, da cui prende la forma e il nome: il testo.
Nell’antica Roma il testum era una tegola in laterizio, usata proprio per cuocere le focacce. Il nome, dunque, rivela come la storia di questa “torta” sia legata a quella dell’impero romano e alle influenze culinarie, tra i popoli che hanno abitato il territorio del centro Italia, in particolare quel corridoio bizantino che, passando per Città di Castello, Gubbio e Perugia, e dividendo l’Umbria in tre parti (ad ovest il Ducato di Tuscia e ad est il Ducato di Spoleto erano entrambi territori longobardi), collegava Ravenna a Roma. Un crocevia di culture e di ricette, spesso imparentate tra loro se pur ciascuna con la propria identità, come la torta al testo e la piadina romagnola (guai a confonderle!).
La somiglianza più stretta è quella con “la mefa”, realizzata con farina, acqua e sale, e cotta sul panaro: la sua antica ricetta iguvina è stata ritrovata su alcune tavole in bronzo risalenti al III secolo a.C. rinvenute proprio a Gubbio. La torta al testo, quindi, affonda le sue radici nella civiltà degli antichi umbri, che inizialmente la cucinavano con farina di farro e orzo, poi sostituiti prima dal mais e in seguito dal grano.
Figlia della vocazione cerealicola del territorio umbro, la torta al testo diventa nel tempo uno dei prodotti simbolo della sua civiltà rurale. Nata come alternativa non lievitata al pane tradizionale, le famiglie contadine la preparavano in occasione della mietitura o della vendemmia e la portavano a tavola divisa in spicchi, facendone simbolo di condivisione e anima di quel senso di comunità e del vivere insieme che spesso era l’unico sostegno alle fatiche quotidiane.

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