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Speciale Puglia: Eros, Thanatos e zucchero. Un viaggio nella simbologia dei dolci pugliesi

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a cura di Maria Luigia Vurro

Alessandro Magno lo definiva “un miele che non ha bisogno d’api”, per descriverne la profonda dolcezza. I mercanti genovesi e veneziani che lo commerciavano in forma grezza dall’Oriente, negli anni d’oro delle Repubbliche Marinare, lo chiamavano “sale arabo”, perché per loro rappresentava una vera e propria miniera d’oro, oltre che una profonda innovazione nel mondo della astronomia europea.
Lo zucchero non manca mai nelle nostre cucine e rappresenta uno degli ingredienti principali di qualunque prodotto dolciario, che sia di facile preparazione o una vera e propria sfida culinaria fatta di tecnica, organizzazione e pazienza. Ma se ai giorni nostri reperire questo prezioso ingrediente a prezzi irrisori si rivela un compito molto semplice, nell’antichità (e in realtà fino a due secoli fa) non era facile ottenerlo: lo zucchero era molto costoso, soprattutto nella sua forma più raffinata, e nel quotidiano veniva utilizzato soltanto dalle classi
nobiliari e alto-borghesi come dolcificante nel caffè e nel tè e come ingrediente in torte e piccola pasticceria.
Un vero e proprio status symbol che finì per creare un divario tra ceti sociali. Proprio per il suo prezzo proibitivo e per la difficoltà nel reperirlo nelle drogherie, lo zucchero diventò un bene di lusso che i ceti popolari sfoggiavano solo per preparare dolci legati a grandi occasioni: matrimoni, feste di fidanzamento, cerimonie religiose, ma anche banchetti funebri e commemorazioni dei defunti, tappe fondamentali che scandivano la vita del popolo, vissute in seno alla collettività e che spesso costituivano uno sfoggio di benessere e prosperità di individui e famiglie.
La Puglia, nella costellazione delle tradizioni dolciarie italiane, rappresenta un esempio lampante di come la dolcezza sia in grado di accompagnare la celebrazione di eventi gioiosi e, contemporaneamente, di consolare l’afflizione della morte e attenuare il dolore del ricordo dei defunti. Ma è sempre meglio cominciare con argomenti gioiosi.
A Bisceglie, in provincia di Bari, non c’è pasticceria o caffetteria che non sia ben fornita di Sospiri. Il loro nome completo sembrerebbe essere “Sospiri d’amore”, in base ad una leggenda, secondo cui alcune suore di clausura della città li crearono per benedire le nozze tra la celeberrima Lucrezia Borgia e il duca di Bisceglie, Alfonso d’Aragona. Il gossip dell’epoca demolì il prestigio dell’evento, ma diede particolare rilievo a questi dolci speciali, che servirono a consolare gli invitati per la lunga attesa.
Altre leggende si focalizzano sulla peculiare forma dei Sospiri, che sembrerebbe strizzare l’occhio alla rotondità dei seni femminili: c’è chi mormora che i Sospiri abbiano come “stampo originario” i seni di Lucrezia Borgia, conosciuta per la sua prorompente sensualità e per la sua frequente infedeltà coniugale, caratteristiche che popolano le leggende su di lei nel
periodo in cui fu duchessa di Bisceglie. I Sospiri sono costruiti su un delicato equilibrio tra albumi montati a neve ferma, tuorli d’uovo, zucchero, farina, glassa fondente e un delicato ripieno di crema pasticcera al limone. Per confermare la loro natura di “dolci sensuali”, la loro ricetta originaria prevedeva che la crema al loro interno fosse arricchita da qualche
goccia di rosolio, il delicato liquore alle rose che le suore di clausura producevano nel loro monastero. Il legame con il matrimonio di Lucrezia Borgia ha consolidato il ruolo dei Sospiri di “dolci della sposa”, tradizionalmente serviti in occasione della promessa di matrimonio, durante la tradizionale “serenata” e al banchetto matrimoniale.
Ad Altamura, nell’entroterra, i Sospiri diventano “Tette delle Monache”, dolci dalla preparazione molto simile con un richiamo sempre più esplicito alla leggenda della loro forma.
Diffuse in tutto il territorio pugliese, da Foggia a Taranto, le Cartellate sono il dolce natalizio per eccellenza nella tradizione culinaria locale.
Storicamente questo rinomato dolce risale addirittura al VI secolo a.C., quando veniva offerto agli dei come elemento propiziatorio di buoni raccolti e prosperità. Nei secoli e con l’avvento del Cristianesimo, le Cartellate diventarono un dolce legato alla devozione per la Madonna per la loro forma, assimilabile a quella di una rosa. Anche le Cartellate hanno un passato di dolce nuziale: pare che la loro presenza abbia allietato il banchetto di nozze della duchessa Bona Sforza e Sigismondo I di Polonia e che la loro leggerezza gli abbia permesso di acquisire il
nomignolo di “nuvole”. Ma il significato simbolico più potente questo dolce lo acquisisce in relazione al Natale: molti storici dell’alimentazione sostengono, infatti, che la sua peculiare forma rappresenti la parabola della vita di Cristo, dalla culla alla corona di spine. L’umiltà di questo dolce si vede anche in relazione agli ingredienti che lo compongono: farina,
olio e vino bianco concorrono alla nascita di una sfoglia sottile ed elastica che viene sapientemente accartocciata su sé stessa, fritta in abbondante olio o cotta al forno e ricoperta da miele, vincotto di fichi e, in alcuni casi, da cioccolato fondente e mandorle. In Marocco un dolce fortemente simile alla Cartellata, la Shebakia, fatto con farina, uova, acqua di fiori
d’arancio, spezie, gomma arabica ed aceto, viene preparato e consumato per celebrare la fine del Ramadan.
Il dolce dalla storia più antica e, se vogliamo, più “infelice” della tradizione dolciaria pugliese è il cosiddetto “Grano dei Morti o Colva“. La tradizione dolciaria italiana pullula di dolci evocativi dei morti, spesso biscotti o torte, ma la Colva rappresenta un interessante unicum gastronomico. Le radici di questo dolce, che si prepara tra la fine di Ottobre e la prima settimana di Novembre, sono da ricercare nel labirinto di fonti antiche sui Grandi e Piccoli Misteri Eleusini, legati al mito greco del rapimento di Persefone da parte di Ade, re degli Inferi, e del
patto che Demetra, dea dei raccolti, stipulò con Zeus per riavere con sé sua figlia per la metà di ogni anno.
Il legame col mito diventa palpabile nella scelta degli ingredienti di questo dolce, che molti definiscono quasi una macedonia: grano cotto nel latte, chicchi di melograno, uva bianca, noci, vincotto e cioccolato amaro. Ed è proprio dal grano cotto, la kóllyva, che deriva il nome di questo dolce, ora usato per commemorare le anime dei defunti, ma in passato preparato come offerta per nutrire i defunti e salvare le loro anime dalla dannazione eterna.
Che siano evocatori di sensualità e amore o di mistero e morte, i dolci pugliesi hanno storie e sapori di una ricchezza unica e inestimabile, che va scoperta morso dopo morso.

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