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Riducetarismo. Alla scoperta del pensiero “dal volto umano” di Brian Katema

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a cura di Maria Luigia Vurro

Ormai non è più un segreto: il nostro pianeta sta affrontando un catastrofico cambiamento climatico che lo sta gradualmente privando delle sue risorse naturali. Ora che il futuro dell’ecosistema terrestre è drammaticamente incerto, tocca ad ognuno di noi riconsiderare le proprie scelte di vita e le proprie abitudini, riducendone l’impatto negativo sull’ambiente.
E questo comporta ripensare le nostre scelte alimentari: secondo l’ultimo Rapporto Italia 2021 di Eurispes, nel Bel Paese all’incirca 1 su 10 si definisce vegana o vegetariana. Una cifra destinata ad aumentare non solo per una questione etica e morale, ma anche per i prezzi favorevoli di frutta, verdura uova e prodotti caseari. L’imponente aumento del prezzo della carne (che attualmente sfiora il 21%) ha spinto molti italiani a considerare la “terza via” del flexitarianismo, uno stile di vita che ad una dieta prevalentemente plant-based accosta il consumo
occasionale di proteine animali. Un modo pratico per non rinunciare completamente alle proprie abitudini alimentari, con un occhio al portafogli e un altro alla qualità dei prodotti di origine animale che acquistiamo.
Ma prima di passare dall’Italia, l’ondata della consapevolezza alimentare ha toccato in modo significativo le coste degli Stati Uniti d’America, terra natìa del concetto di fast-food e secondo paese produttore di carne al mondo. Secondo le stime del Vegetarian Resource Group, nel 2017 circa 8 mln di americani si definivano vegetariani e i vegani erano solo 128 mila. Una situazione impietosa che ha convinto gli “attivisti veg” statunitensi ad adottare slogan e metodi estremi per attirare consensi e smuovere coscienze.
È in questo clima che l’imprenditore Brian Kateman e il suo socio Tyler Alterman hanno fondato, nel 2015, la Reducetarian Foundation, un’organizzazione no profit che nel tempo ha dato origine ad un movimento sociale trasversale che ha come obiettivo il superamento delle etichette e delle argomentazioni divisive per affrontare in modo pragmatico e conciliante il dibattito sull’alimentazione del futuro e, se possibile, salvare il pianeta.
Il progresso settennale del riducetarismo si è tradotto in faraonici summit annuali sponsorizzati dalle maggiori aziende che producono ed esportano cibi di origine vegetale (tra cui la nostrana Barilla), un libro-manifesto, “The Reducetarian Solution”, un libro di ricette plant-based, “The Reducetarian Cookbook”, un documentario, “Meat me Halfway”, nonché in un sito internet (https://www.reducetarian.org/) che contiene video, articoli e persino un podcast con consigli utili su come scrivere un libro, aprire un ristorante o una start-up di prodotti plant based o sensibilizzare celebrità e stampa locale e internazionale alla causa.
Ora il riducetarismo sbarca anche in Italia, ma accompagnato dalla fastidiosa etichetta di “trend alimentare” che lo introdurrebbe di diritto nella sezione “diete stagionali” di un giornale di gossip nostrano. Ma il riducetarismo aspira ad essere molto più di un semplice trend, e le premesse lo dimostrano.
Il suo nome deriva dal verbo anglosassone “to reduce”, che si traduce intuitivamente con “ridurre” e si riferisce direttamente all’imperativo che unisce tutti gli ambientalisti a livello globale: ridurre l’apporto di carne e di proteine animali che consumiamo quotidianamente in favore di proteine vegetali, fruttae verdura. Ma “to reduce” in questo caso sembra prendere anche il significato metaforico di “unire le forze”, annullare le differenze ideologiche che separano vegetariani, vegani, onnivori e flexitariani e lavorare sulla base di un ideale comune per progettare insieme un futuro più sostenibile.
Sul perché dovremmo “disintossicarci” dalle proteine animali, non tutti gli attivisti trovano un punto in comune: alcuni spingono sull’impatto ambientale dell’industria della carne, altri sull’impatto che una dieta a base di proteine animali può avere sulla salute, altri ancora sulla questione etica e morale dell’uccidere un animale per cibarsene. Tutte posizioni sensate
e condivisibili, secondo Kateman, che bisogna riconciliare in un unico messaggio: l’industria della carne così com’è va eliminata e il mondo sarebbe un posto migliore se le persone mangiassero meno carne. A questo proposito, Kateman punta il dito contro un certo tipo di propaganda ambientalista che lui definisce “una lotta per la superiorità morale estenuante e improduttiva” tra chi non mangia carne per motivi etici e chi semplicemente si sforza di mangiarne di meno.
Un punto di forza della filosofia riducetariana è infatti mettere al centro della comunicazione non solo un messaggio chiaro di sostenibilità e consapevolezza ambientale, ma anche la sensibilità di chi lo riceve.
Non concentrarsi sull’etica delle scelte del “consumatore medio”, ma sul suo background economico e sociale, è una scelta fondamentale: negli Stati Uniti, il gap tra chi ha accesso a cibi più sani, “plant-based” e con un miglior rapporto qualità-prezzo e chi vive di sussidi statali e si affida alla lobby del junk food per l’alimentazione quotidiana è immenso.
E la povertà diffusa si traduce in un 70% di americani obesi o in sovrappeso, stando alle ultime statistiche.
Spesso, come denunciava il celebre conduttore e comico Bill Maher nel 2019, l’obesità negli Stati Uniti in un mese fa più vittime delle armi da fuoco. In questo contesto, la filosofia riducetariana “assolve” chi non riesce o non può rinunciare alla carne e punta il dito contro politici, multinazionali e lobby del junk food che rendono quest’alimento un pilastro del made
in USA. Ma l’attivismo riducetariano non smette di sostenere l’importanza di un’educazione alimentare diffusa, degli investimenti nelle start-up di prodotti plant-based e nelle fattorie con allevamenti etici e sostenibili e, più semplicemente, dello sforzarsi di mangiare meno carne. Un’azione apparentemente semplice, quella di rinunciare alla carne anche solo per un giorno, che però può diventare un’ottima abitudine e sul lungo periodo renderci più in salute, più attivi e più felici.
Non c’è da sorprendersi che una filosofia alimentare dal volto umano e dall’approccio conciliante come il riducetarismo sia nata negli Stati Uniti e abbia ottenuto lì un largo consenso. Solo il tempo ci dirà se il suo impatto in Europa e in Italia si farà sentire o se rimarrà solo un trend passeggero di cui leggere sotto l’ombrellone.

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