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Non solo Kosher. I vini d’Israele, tra storia, religione e ricerca

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a cura di Mafalda D’Onofrio

Ritrovamenti di anfore per la conservazione e il trasporto del vino con più di 5000 anni fanno di Israele la culla della vinificazione, che ha vissuto privazioni e limitazioni ma che sta finalmente convincendo gli enofili di tutto il mondo. Dai rossi profondi come Cabernet Sauvignon, Merlot e Shiraz, ai bianchi freschi e “croccanti” come Sauvignon Blanc e Chardonnay, passando per una nuova serie audace di vini rosati, il vino israeliano sta facendo parlare di sé come parte integrante della vibrante scena culinaria di Israele.
La Torah narra che Noè, dopo la salvezza dal diluvio universale, piantò alcuni vigneti e preparò del vino, come simbolo di rinascita; è evidente il significato religioso e simbolico del vino per Israele da cui deriva l’importante ruolo che assume durante le funzioni religiose: Bar mitzvah, matrimoni, ma anche durante le celebrazioni della Pessah, la Pasqua ebraica che commemora la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, o la celebrazione più costante dello Shabbat, i cui pasti sono sempre preceduti dalla benedizione del calice di vino (Kiddush).
E per molto tempo la produzione vinicola israeliana si è
limitata ai vini da cerimonia, dopo che il dominio musulmano in Terra Santa, bandendo l’alcol e consentendo solo la produzione di uva da tavola, ha fermato la vinificazione per centinaia di anni. Tra il XII e il XIII secolo, i crociati hanno tentato di risollevare le sorti delle viti in Israele ma è stato più semplice importare vino dall’Europa; così la storia del vino in questi territori si interrompe, per riprendere solo nella metà del XIX secolo quando il ritorno al lavoro della terra viene visto come un indizio positivo di rinascita. Si fondano le prime cantine, le scuole di agricoltura, si coltivavano i vitigni internazionali più diffusi. È noto il ruolo importante giocato da Edmond de Rothschild, il Barone proprietario dello
Chateaux Lafite di Bordeaux, fondando la storica cantina Carmel nel 1882 e finanziando iniziative vitivinicole in Terra Santa con la speranza che diventasse il cuore produttivo dei vini Kosher per gli ebrei di tutto il mondo. L’inquieto periodo storico non si è dimostrato alleato di questo progetto, e nei primi anni del 900 la nascita di numerose aziende non è bastata a stimolare un’economia del vino florida: per via delle guerre, la viticoltura era confinata nelle zone vicino al mare, dove i terreni ricchi davano grandi produzioni a discapito della qualità. Secondo alcuni dati del 1948 il consumo procapite non raggiungeva i 4 litri e la funzione del vino rimaneva principalmente liturgica.
Il vero cambiamento e la conseguente crescita si devono al noto professore di enologia della California University, Cornelius Ough, che giungendo in Terra Santa individua il territorio delle Alture del Golan come il più vocato alla viticultura, per clima, altura e posizione. Siamo agli inizi degli anni 70 e il Golan è un territorio politicamente “caldo”, ma nel 1983 i primi vini della cantina “Golan Heights” si affacciano al commercio, spianando la strada alla moderna produzione vitivinicola, con una precisa filosofia: l’offerta di vino di qualità, a prezzi accessibili, di ispirazione californiana.

Attualmente il mercato del vino di Israele ha compiuto progressi enormi: il numero di cantine e aziende vitivinicole è cresciuto in maniera esponenziale (da appena sette realtà a oltre 300) con vigneti che coprono circa 6.000 ettari (78% uve rosse e 22% bianche) per 336.000 ettolitri annui di vino e la qualità delle produzioni sta attirando investitori ed esperti di tutto il mondo. Le dimensioni delle “boutique” del vino sono diverse, si va dalla piccola struttura alla grande impresa.
Per quanto piccolo sia il comparto del vino israeliano, presenta una notevole variabilità di zone e climi, con diversi terroir da nord a sud del paese: la Galilea, al nord, possiede 1.400 ettari di
produzione, è un territorio di origine vulcanica giustamente drenante, molto vasto e vario nel quale la vite viene coltivata
tra i 400 e i 1200 metri s.l.m.; accoglie proprio quelle Golan Heights identificate come così adatte alla produzione di vino, e infatti qui si trovano vini molto interessanti tra cui anche il Gewürztraminer e tanti bianchi. Scendendo, ci si trova in Samaria, dal clima e alture più miti, 900 ettari vitati in tutto, dove si sviluppa il vigneto più esteso tra le regioni vitivinicole ed ospita alcuni dei nomi più importanti della viticoltura israeliana come Binyamina e il notissimo Margalit.
Più in basso, il Samson, una pianura costiera con dolci colline dai terreni argillosi, decisamente influenzate dal Mar Mediterraneo, con 1.300 ettari vitati. Qui si trovano Cantine importanti, che però, come comunemente avviene in Israele, prendono le uve da più territori. Difficilmente, in Israele, la zona della cantina corrisponde alla provenienza delle uve.
Verso est troviamo le montagne attorno a Gerusalemme, le
Colline della Giudea che, con 400 ettari ed un’altitudine fino
ai 900 metri, costituiscono il territorio di maggior produzione
dei vini dolci usati per celebrazioni religiose ma che oggi sta
vivendo un forte rinnovamento grazie alla coltivazione di varietà nobili che danno già ottimi risultati. Qui hanno sede rinomate cantine come Tzora, Clos de Gat e Castel. E infine, a sud, i 200 ettari di vigneti che destano maggiore curiosità, nel Deserto del Negev: vini estremi, frutto di una vera e propria conquista di volontà e tecnologia che, con impianti sofisticati di irrigazione hanno reso coltivabile questa terra.
Alcuni vigneti sorgono al limitare del deserto, un paesaggio
davvero unico, per chi come noi, è abituato ad associare il vino a dolci colline. Nel Negev si coltivano uve Cabernet, Merlot, Sauvignon bianco, Syrah, Carignan e Zinfandel. Da queste parti il vino è particolarmente aromatico, date le condizioni climatiche e del terroir, elemento fondamentale per avere un profumo e un gusto unici.
La “diaspora” degli enologi di Israele, con relativa “aliá”, ritorno in patria, ha creato un mosaico interessante, per cui lo stile delle Cantine è spesso impresso dall’enologo e dal Paese di formazione. È possibile trovare quindi vino israeliano di ispirazione francese, italiana, americana o australiana.
Ovviamente, il timbro territoriale c’è, ed è evidente, con il clima più o meno mediterraneo a portare maturità di frutto e gradazioni importanti. Non mancano vini “autoctoni”, recuperati recentemente dopo secoli di oblio dai ricercatori della Ariel University, con un progetto di archeologia vitivinicola che cerca varietà di vitigni creduti persi dopo il dominio musulmano in Terra Santa: l’Argaman, considerato ormai varietà locale, ma in realtà incrocio del portoghese Souzão e Carignano, adatto soprattutto nei blend per rinforzare struttura e colore, può essere interessante anche vinificato in purezza, quando proviene da vigne vecchie, e usando la cautela di estrarre troppi tannini; e il prezioso Marawi bianco, una varietà di oltre 2 mila anni, rinvenuto
nei territori palestinesi e nella zona di Betlemme, che regala un vino agrumato, con una meravigliosa acidità e spiccata mineralità.
Il forte legame della produzione vinicola israeliana con la liturgia ebraica ha indissolubilmente etichettato questi vini come Kosher, ossia “idonei”, puri e certificati in base alle regole del Kasheruth, il complesso di precetti alimentari della religione ebraica stabilite nella Torah e codificate nello Shulchan Aruch. Ma va detto che non tutto il vino kosher è prodotto in Israele e non tutto il vino israeliano è kosher: quasi tutti i paesi produttori di vino nel mondo producono vino kosher e in Israele molte delle cantine più nuove e più piccole producono vino non kosher; tuttavia, essere kosher consente l’accesso al commercio attraverso il canale religioso e anche chi non è osservante vede nella produzione kosher un segno di qualità e garanzia. Esistono differenti certificazioni, accomunate da alcune regole di base. La certificazione più severa è rilasciata dalla Ortodox Union, OU (Unione delle Congregazioni ebraiche ortodosse d’America), che solo dieci rabbini al mondo possono rilasciare e che è la più apprezzata dal mercato statunitense. Eppure, leggendo le regole del Kasheruth, si capisce bene che in fondo non hanno impatto sulla produzione del vino in sé, e non possono incidere sulla sua qualità: un vino kosher può essere buono o non buono, ma non ha niente a che fare col fatto che sia kosher o meno.

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Le regole del Kasheruth si applicano già nella coltivazione della vite: Orlah – nei primi tre anni è proibito raccogliere i grappoli, che vengono distrutti prima della fioritura; Shmitah – ogni sette anni la vite deve essere lasciata a riposo ed è proibito raccoglierne i frutti; Kilai Hakerem – non si possono avere colture miste, tra i filari non si può coltivare altro. Tutte le operazioni nella fase di vinificazione, dal momento in cui le uve raggiungono la cantina, devono essere eseguite da ebrei praticanti e osservanti lo Shabbat; posso essere usati per la fermentazione solo i batteri e gli enzimi kosher (anidride solforosa, zuccheri in forma di mosto
concentrato e certificato kosher, saccaromiceti certificati kosher e bentonite – minerale a base di argilla che serve a chiarificare il vino) e tutte le attrezzature per la raccolta e la lavorazione delle uve devono essere puliti sotto controllo (processo di kosherizzazione, che solitamente inizia alcuni giorni prima della spremitura) affinché si sia certi che non rimangano corpi estranei nelle attrezzature o nelle vasche. Un incaricato supervisore, il Mashghiach, si occupa di dare inizio al processo di vinificazione, che segue le fasi classiche comuni a qualsiasi cantina.
Una bottiglia di vino Kosher presenta tre sigilli di garanzia, uno
sul tappo, uno sulla capsula e uno sull’etichetta, dove è presente
anche il marchio di chi ha seguito il processo di Kasherut.
Le certificazioni possono riguardare tre tipi di vino kosher: vino semplicemente kosher, da poter bere quotidianamente; vino kosher per Pesach, prodotto scongiurando la possibilità che vi si trovino tracce di lieviti dei farinacei (ad esempio le persone partecipanti alla vinificazione non possono mangiare pane nelle cantine, per evitare briciole, per cui le sale da pranzo devono essere esterne) poiché nella Pasqua ebraica è assolutamente proibito consumarli; vino yayin mevushal, ossia pastorizzato (portato a 89° gradi e poi immediatamente a 4°, in modo da non compromettere profumo e aroma), che può essere servito a tavola anche da non ebrei e molto apprezzato dai più ortodossi. Una parte del vino, solitamente massimo l’1%, che secondo la cerimonia del Trumat Maser rappresenta l’offerta pagata al Tempio di Gerusalemme, deve essere versato via, lontano dalle botti o dalle vasche in cui il vino è stato prodotto. Le bucce e gli acini verranno poi utilizzate per distillare preziose grappe tramite impianti precedentemente kosherizzati.

La produzione di vino kosher è molto onerosa e impegnativa, sia per l’impiego di manodopera e supervisori ebrei, sia per la necessaria kosherizzazione di tutti gli strumenti utilizzati. La lunghezza e onerosità del processo determina inevitabilmente un maggior costo del vino kosher rispetto al suo corrispettivo non kosher. Ora la ricerca dell’eccellenza è la forza della viticoltura di Israele, un paese che deve lavorare verso l’esportazione dei suoi prodotti, dandogli un’identità riconoscitiva. Attualmente la gran parte della produzione è destinata al popolo ebraico della Francia e degli Stati Uniti, ma l’obiettivo è vedere il vino israeliano nelle enoteche di tutto il mondo, con un suo spazio definito.

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