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Niko e Cristiana Romito: una storia di successi

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Due fratelli legati da un destino fatto di tanto lavoro e
impegno ma anche di molte soddisfazioni e riconoscimenti
importanti. Progetti che spaziano dalla ristorazione all’hôtellerie, dal cibo di strada a un programma di nutrizione per gli ospedali e non solo.
Cristiana e Niko si raccontano: studi, ricerca, passione, dedizione, spirito di squadra, obiettivi raggiunti e quelli ancora da raggiungere. Un viaggio che parte dall’Abruzzo e non è ancora arrivato al capolinea.

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Niko Romito e Dino Como. Ph. Brambilla Serrani

Quando Niko Romito ha capito la sua strada e ha iniziato a
dedicarsi anima e corpo alla realizzazione del suo sogno?
Sono un cuoco autodidatta. I miei esordi sono nel segno dell’improvvisazione e dell’istinto di sopravvivenza, in un certo senso obbligati anche dalla necessità di portare avanti il Reale. La mia curiosità mi ha portato a passare ogni attimo libero sulle pagine di un libro o ai tavoli del ristorante di un collega. La mia più grande soddisfazione è forse proprio avercela fatta a creare Casadonna e il Reale, dopo anni di sacrifici in cui a volte, Cristiana ed io pensavamo di non riuscire a portare a termine il nostro progetto. Ho costruito un mio linguaggio gastronomico originale con un lungo processo di studio e ricerca, ma per farlo ho dovuto capire a fondo le mie radici. Quando dieci anni fa Bulgari mi offrì la direzione del ristorante del Bulgari Hotel & Resort di Tokyo io rifiutai perché volevo lavorare in Abruzzo, dove sentivo che avrei sviluppato qualcosa di importante. E allora decisi di acquistare Casadonna, ex monastero del ‘500, che oggi è il centro di tutte le mie attività.

Cristiana, hai studiato da interprete e traduttrice. Quali erano i tuoi progetti lavorativi prima di prendere la decisione di tornare sulle colline abruzzesi?
Da bambina sognavo di fare l’hostess, da ragazza avrei voluto
andare a Bruxelles a lavorare alla Comunità Europea. Mi
ha sempre affascinato l’idea di conoscere e vivere culture e
nazionalità diverse.

Quanto hanno influito la ricchezza e la varietà dei giacimenti gastronomici della terra natia nella cucina di Niko Romito?
Ho sempre pensato che la cucina ha molto a che fare con l’identità che è legata ai luoghi, alle atmosfere, alle persone, ai nomi, ai profumi e ai prodotti che ogni territorio ha da
offrire. Questo per me non ha significato chiudermi in Abruzzo, anche se il mio lavoro è stato fortemente influenzato dal mio territorio. Tuttavia, mi sono emancipato sempre di più dalle ricette della regione e anche se continuo tuttora a usare la migliore materia prima della mia terra. L’Abruzzo oggi rappresenta soprattutto un ideale di concentrazione, riflessione, rispetto, verità applicati all’ingrediente. È ispirandomi a questi valori che io cucino e che gradualmente sto formando la mia idea di cibo del futuro.

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Melanzana arrosto by BRAMBILLA SERRANI PHOTOGRAPHERS

Cristiana, sei stata premiata come migliore Maître d’Italia. Qual è la tua idea di ospitalità? A che cosa ti sei ispirata?
Per me l’accoglienza inizia dalla conoscenza: vedere, guardare,
osservare sono elementi fondamentali. La nostra sala ha un approccio essenziale, poco retorico, diretto. Spesso faccio scelte che non rispettano pedissequamente il protocollo ma che per me hanno senso e sono coerenti con il nostro stile. Siamo un po’ anticonformisti (ride): abbiamo creato un tipo di eleganza informale in sala che è speculare all’essenzialità dei piatti di Niko e l’abbiamo affermata con determinazione nel tempo. Non credo che esista una sala perfetta, perché tutto è sempre perfettibile. Esiste una sala ‘bella’, che resti nella memoria di chi l’ha vissuta seduto al tavolo.

Niko qual è, secondo te, la peculiarità imprescindibile che uno chef deve avere oltre alla sua formazione, ai suoi studi e alle sue esperienze?
La curiosità è un elemento determinante: è un’attitudine, che si può manifestare a livello pratico in tanti modi diversi. A volte le persone scoprono il proprio talento da grandi, oppure strada facendo, com’è successo a me. A 25 anni studiavo all’università e non avevo assolutamente idea di cosa mi sarebbe accaduto in seguito.

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Insalata tiepidi di rape rosse, patata e mandorla. Ph: Brambilla Serrani

Cristiana, a tuo parere qual è la tua dote migliore nei confronti dei tuoi ospiti?
Capire il cliente che hai davanti: questa è la questione fondamentale. Intuire la sua inclinazione gastronomica e prendersi in carico le sue aspettative. Come si fa?
È importante instaurare un dialogo ed essere aperti, in ascolto, serve un po’ di psicologia, per capire e interpretare le esigenze del cliente. Solo così si può accompagnarlo e consigliarlo, per far vivere al meglio l’esperienza; farlo stare bene ed emozionarlo con autenticità, senza artifici. Già durante la presa della comanda, al momento della scelta, è importante sapere consigliare i piatti giusti.

Niko, qual è il piatto che ha inciso profondamente nel successo delle tre stelle Michelin?
Credo che sia stato piuttosto il mio percorso gastronomico a
incidere sul successo delle tre stelle Michelin. Il 2009 è stato
un anno spartiacque per la mia cucina: un passaggio radicale
dalla tradizione al modernissimo. Infatti, sono nati l’Assoluto
di Cipolla, forse il mio piatto più conosciuto, e il Gel di
Vitello. Ho iniziato il grande lavoro sulle estrazioni, le basi, la mia
ossessione nella concentrazione del sapore: ho iniziato a
togliere, semplificare, a operare per sintesi.
Oggi sento qualcosa che ancora mi lega a quegli anni: è in quel
momento che sono nati in forma embrionale tanti concetti, che ancora oggi evolvono in modo inesauribile.

Cristiana, essendo un autodidatta dell’accoglienza, qual è stato l’errore che ti ha insegnato di più?
Alla base del mio carattere e quindi del mio lavoro ci sono
le parole ascoltare, vedere e osservare. Dai miei esordi nel
mondo della sala e dell’ospitalità, seppur da neofita, non ho
mai improvvisato. Ho sempre studiato tanto e soprattutto ci
ho messo tanta passione. Non c’è stato un errore in particolare,
ma un’evoluzione progressiva che mi ha permesso di crescere
e maturare professionalmente. Sono una persona di natura
riservata e sicuramente questo lavoro mi ha fatto cambiare
caratterialmente.

 

Niko, come nasce un nuovo piatto? Dalla materia prima o da un’idea astratta?
La nascita di un piatto non segue sempre lo stesso percorso, né c’è un processo definitivo e precostituito che io o i miei colleghi applichiamo. Non credo che un processo del genere sia applicabile alla cucina, perché la parte teorica non è mai slegata da quella pratica, ma vanno di pari passo. Mi spiego. Nella maggior parte dei casi la mia ricerca parte dalla materia prima: in questi casi io non ho un’idea precisa di cosa voglio fare finché non inizio a trasformarla, lavorarla, e allora in parte siamo già all’ultima fase, quella delle prove. È il caso, ad esempio, di “Spaghetti e pomodoro”: l’idea che avevo in mente era estremamente semplice, e cioè realizzare una mia versione del piatto italiano per eccellenza amplificando al massimo il gusto del pomodoro e rendendolo “assoluto”, definitivo in un certo senso; ma nella pratica il piatto ha preso forma durante la lavorazione. È stata la materia prima a illuminarmi lungo la strada della ricerca per il piatto finito. Altre volte mi muovo a partire da un’idea astratta: ad esempio in “Calamaro, pepe rosa e lattuga” uno dei concetti-guida del piatto è stato l’assonanza cromatica del pepe rosa e del
calamaro, così come in “Melanzana, pesca e pomodoro”. Altre volte, invece, la leva di partenza è una tecnica particolare, che decido di applicare a una determinata materia prima: pensiamo alla tecnica dell’estrazione in “Assoluto di cipolla, parmigiano e zafferano tostato”, o alla stratificazione applicata al “Carciofo e rosmarino”. Posso dire però che la sensazione di trovarsi sulla strada giusta e l’eccitazione legata alla ricerca ci sono sempre. Spesso poi è la stessa natura degli ingredienti che ci suggerisce soluzioni a cui non avevamo pensato, a guidarci nella ricerca.

Cristiana, qual è Il tuo piatto preferito tra quelli che cucina Niko?
Potrei vivere di soli vegetali! Amo i piatti nei quali Niko li nobilita, ad esempio il cavolfiore, il cocomero, il pomodoro. Adoro i suoi capellini sia ai porri, sia al pomodoro.

Niko, secondo te il ruolo mediatico dei cuochi oggi si è spinto troppo oltre rispetto al lavoro in cucina?
Oggi i cuochi sono molto esposti a livello mediatico, spesso
siamo considerati dei divi, e anche chi non è famoso, gode
comunque di una buona reputazione sociale.
Con le scelte che facciamo e con la nostra immagine pubblica
possiamo influire su dibattitti sociali importanti come quello sulla sostenibilità delle produzioni alimentari, sulla valorizzazione dei territori, sull’impatto dell’alimentazione sulla salute. La relazione con il pubblico è importante, possiamo farne un canale di trasmissione di valori e messaggi importanti, ma in generale credo che il lavoro del cuoco sia in cucina.
Secondo me è importante esercitare la propria creatività e talento ma partendo sempre da un legame della cucina con l’ambiente circostante. Il cuoco non è un professionista che lavora in isolamento, è piuttosto l’anello della catena del cibo che lega produttori e consumatori.

Piccione, chiodi di garofano, acqua e senape_Brambilla Serrani
Piccione, chiodi di garofano, acqua e senape. Ph: Brambilla Serrani

Cristiana, di tutti i progetti che avete realizzato e portate avanti, qual è quello che ti dà maggiori stimoli professionali?
Sicuramente l’hôtellerie e il mondo dell’ospitalità a 360°.
Anche in questo settore sono autodidatta e la consapevolezza
di essere riuscita in sei anni a creare una mia idea di ospitalità
e di accoglienza che mi piace definire “Arte del Ricevere”, mi ha dato e continua a darmi grande soddisfazione. Il confronto con i miei ospiti, gli apprezzamenti e i consigli, sono stimoli quotidiani a migliorare, a ricercare la bellezza nei dettagli, è un mondo che apre tante porte e che stupisce sempre. Ho costruito e sto costruendo qualcosa di mio. Vedere la soddisfazione sul volto del cliente, sapere di aver contribuito a regalargli un’esperienza che ricorderà e racconterà, mi gratifica sempre.

Niko, Il tuo “linguaggio gastronomico” è il risultato di talento, passione, creatività o ricerca?
La ricerca è il denominatore comune di tutti i miei progetti. Prima di tutto in cucina: i miei piatti sono il frutto di un lavoro continuo sulla materia prima e sulle sue trasformazioni. Lunghi periodi di prove, studio, analisi, che svolgiamo nelle cucine del Reale e nell’adiacente laboratorio di pasticceria e panificazione: luoghi speciali nei quali sintetizziamo metodologie e protocolli, studiamo tecniche nuove e sperimentiamo in totale libertà. Io penso che il senso profondo di quello che facciamo in alta ristorazione si esprima sui grandi numeri. Nel momento in cui il mio laboratorio di studio e ricerca, il ristorante Reale, riesce a far arrivare al grande pubblico parte delle conoscenze sviluppate e dei risultati acquisiti, allora significa che stiamo lasciando un segno.
In un percorso che va dall’alto verso il basso, dal ristorante gourmet alla mensa dell’ospedale, io e il mio staff stiamo
provando a ridefinire la funzione che il cibo ha nella società.

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Reale_dining room_team_Ph. Barbara Santoro

Cristiana, che tipo di rapporto avete con Niko? Siete nel flow su tutto o vi scontrate e poi trovate le soluzioni?
Il rapporto che ho con Niko parte sicuramente dal legame
fraterno fatto di una profonda conoscenza e di grande complicità. Questo si riflette naturalmente nel nostro lavoro e credo che sia anche la nostra grande forza, come lo è saper metter da parte la confidenza famigliare in virtù di una collaborazione che per essere strategica, deve rimanere squisitamente professionale. Naturalmente ci sono scontri, ma alla base è fondamentale il dialogo e il confronto, senza i quali non ci sarebbe crescita. Siamo molto diversi, io più razionale e lui più istintivo e naturalmente creativo e forse proprio per questo abbiamo trovato il giusto equilibrio. Ci confrontiamo sempre, sia sul servizio e su tutto ciò che gira intorno all’accoglienza, sia sulla cucina e sui piatti.

Un libro e una scuola di formazione. Quanto è importante secondo Niko investire sui giovani? Che cosa s’insegna nella tua Accademia?
Fare formazione fa crescere, anche professionalmente.
Insegnando, dai molto ma ricevi anche di più. I ragazzi mi fanno ragionare su concetti che rischiavo di dare per scontati e che invece ho ripreso in modo nuovo. Li ho riadattati, li ho aggiornati e mi hanno ispirato nuove idee. E sento che la formazione è il mio futuro. Avere ragazzi che aprono il loro ristorante (ne abbiamo già 6 o 7) s’ispirano a ciò che hanno imparato qui significa per me
lasciare un qualcosa di tangibile e importante. Nella nostra Accademia insegniamo ai giovani cuochi a concentrarsi non solo su come si cucina, ma altrettanto su cosa si cucina: gli ingredienti vanno conosciuti e studiati, e bisogna sapere come progettare un piatto che valorizzi al meglio caratteristiche e specificità di ognuno. Credo anche che, sempre di più, il cibo sia ambasciatore
dell’ecosistema da cui proviene; e intendo con questa parola non solo il territorio agricolo ma anche il contesto culturale, le abitudini di preparazione e consumo degli alimenti che sono diverse da paese a paese, da famiglia a famiglia, e che contribuiscono a creare la nostra identità. Il cibo rappresenta
tutto questo, e oggi ne abbiamo sempre più consapevolezza.

Cristiana, a che cosa presta più attenzione il cliente tipo:
all’accoglienza o al servizio in sala?
La sala determina l’esperienza gastronomica. Il cliente che viene in ristoranti come il nostro si aspetta un ambiente che non sia affettato, dove i ragazzi sorridono e parlano mentre in molti altri locali simili parla solo il maître. Questo dialogo con i ragazzi è apprezzato, perché sono presenti ma non invadenti. È un aspetto che rinforza la nostra accoglienza in stile “familiare”, come essere a casa. Per chi viene la prima volta da noi o, come spesso accade,
per chi per la prima volta arriva in un ristorante da tre stelle Michelin, è necessario che l’accoglienza faccia sentire a
proprio agio. Per vincere il timore e l’ansia di certi clienti non abituati, è importante il sorriso, l’accoglienza.
Il primo impatto – quello che si ricorda e che predispone – è dato dall’ambiente, dalla musica, dai materiali, dalle persone. Alcuni clienti sono abituati, altri sono timorosi di non essere all’altezza: quindi il calore, l’ambiente e i colori sono per metterli a loro agio. Per i clienti abituali c’è il piacere di essere riconosciuti, la delicatezza di ricordarsi certe particolarità o gusti. Chi sceglie di venire da noi, lo fa anche per lo stile della nostra accoglienza. Cerco di dare e fare un servizio personalizzato, che quando vado in un ristorante, vorrei che fosse fatto a me sentendomi messa a mio agio.

Minimalismo, essenzialità, valorizzazione dei prodotti del territorio sono le caratteristiche della tua cucina. Da dove nascono e con quale ordine d’importanza si trovano nei piatti di Niko Romito?
La mia cucina si basa su alcuni concetti chiave: semplicità,
equilibrio, bilanciamento, leggerezza, ampiamente descritti nel libro “Dieci lezioni di cucina” (recentemente riedito da Giunti nella sua seconda edizione), che rappresenta in un certo senso il mio manifesto culturale. Negli anni ho sempre continuato a
studiare e fare ricerca: se penso al passato, vedo che questi principi sono rimasti invariati, ma si è aggiunto in maniera importante il tema della salute. Il progetto Intelligenza Nutrizionale mi ha dato l’opportunità di fare scoperte interessanti sulla trasformazione dei cibi e gli effetti che ne derivano per la salute, facendomi scoprire che un piatto può esser molto buono e insieme molto sano, che scienza e gastronomia possono collaborare.
Ho acquisito numerose conoscenze tecniche con il lavoro di ricerca che facciamo al Reale (penso al pane, ai vegetali, ai fermentati), e le ho messe a sistema creando dei format completamente replicabili (Spazio, Intelligenza Nutrizionale, Bulgari, Bomba, PANE), perché vorrei che la buona cucina fosse
accessibile a tutti, a tutti i livelli.
Più vado avanti e più concentro, riduco, plasmo la materia in nome di un’idea semplice, comprensibile, che ci riguarda tutti. E così torno indietro, a cose come il “Pane e ragù” di Spazio. Semplicità nel senso di verità, purezza, gusto, lavorando ogni ingrediente in maniera rispettosa di chi l’ha prodotto. Se la mozzarella è fatta da un mastro casaro ed io la distruggo in base al mio ego da cuoco, non sono un buon cuoco. Bisogna rispettare le materie prime e dare loro un valore aggiunto che crei emozione in chi le mangia. È la cosa più difficile. È importante anche il concetto di “pulizia” nei sapori: non amo i piatti troppo “rotondi”, cioè con troppi ingredienti, magari mascherati da nomi particolari.
La mia filosofia è diversa: anche questa è semplicità.

Ci racconti un aneddoto simpatico che hai condiviso con Niko in questi anni di crescita professionale?
Ricordo quando nel 2009 ci fu il G8 a l’Aquila. Noi avevamo
da poco preso la seconda stella Michelin e fummo chiamati
per cucinare per le First Ladies. Io e Niko eravamo giovani,
emozionati e ancora poco consapevoli della storia che avremo
scritto insieme da allora a oggi. Quando arrivammo, ci informarono che una delle First Ladies non mangiava zuccheri. Il dessert che aveva previsto Niko era “Finocchio e Cioccolato”. Così all’ultimo minuto, con la materia prima che aveva a disposizione in loco, lo Chef inventò un dessert a base di frutta, per soddisfare l’esigenza alimentare della Signora.
Il pranzo procedette bene, la tensione lasciò lentamente spazio
alla felicità e alla soddisfazione. Arrivammo al dessert e alla First
con l’intolleranza allo zucchero servimmo il dolce concepito da
Niko in quattro e quattr’otto apposta per lei… ma appena lei vide
il dessert previsto dal menù, mandò indietro il suo e servimmo
anche a lei Finocchio e Cioccolato. Io e Niko sorridevamo felici.

Foto di anteprima di Brambilla Serrani

 

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