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Margarita. Il cocktail fiore all’occhiello del Messico

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a cura di Chiara Almonte

“Form to be one of the most popular drinks of our time, and is almost always just the thing for a man or woman in the dumps or out of them.” – Imbibe, David Wondrich. form to be one of the most popular drinks of our time, and is almost always just the thing for a man or woman in the dumps or out of them” – Imbibe, David Wondrich

Il Margarita è un sour molto fresco, un drink con un certo tenore alcolico, da gustare sia prima che dopo cena.
Secco e “sharp”, è l’ideale per chi ama le sensazioni aspre dal pizzico salino. Il celebre bordo di sale sulla tipica coppa potrebbe essere nato per una questione di igiene, ma anche perché il sale è un flavour enhancer, un eccellente esaltatore di sapidità. Il culto di questa famosa bevanda è americano, ma oggi viene consumata in tutto il mondo, soprattutto a partire dagli anni Sessanta e Settanta, quando la popolarità della Tequila – ingrediente essenziale per la preparazione dell’agro cocktail – è cresciuta esponenzialmente. Tanti ne reclamano la paternità ma le sue origini sono difficili da individuare. Per determinarle, occorre viaggiare tra culture, popoli e tradizioni.
La sua ricetta ricalca un modo di bere di molti anni fa, slegato da pubblicità aziendali e tabù legati all’alcol.” A raccontarcelo è Lorenzo Burrone, grande appassionato e conoscitore del bartending, vincitore del premio Angelo Zola 2021, esperienza all’Artesian di Londra nel 2016 (premiato con il World’s Best Bar su Drinks International 2015) e, dal 2019, all’Octavius bar di Piazza Gae Aulenti a Milano.
È lui a guidarci in questo viaggio nell’affascinante mondo dell’agrumato Margarita. Tra Messico e America: una saporita ricetta che travalica i confini. In America, a cavallo del Novecento, esisteva una categoria molto popolare: il Daisy, ossia distillato, parte citrica (tendenzialmente limone) e liquore di arancia. Gin Daisy e Whisky Daisy avevano la stessa ricetta ma con l’utilizzo di un distillato diverso, con l’aggiunta o meno di una spruzzata di soda.
Tutto questo accadeva in America. Il Messico, nel frattempo, risentiva inevitabilmente degli scambi culturali e commerciali. Se nel nuovo continente si beveva Brandy, Whisky, Rhum e Gin, in Messico c’era il Tequila. Questo dettaglio sulla storia del Margarita è importante, dato che “Daisy” non è altro che la traduzione della parola spagnola “Margarita”.
Nel 1929, un nuovo resort ad Agua Caliente, fuori Tijuana, introdusse il suo cocktail della casa: il Tequila Sunrise. Tequila, succo di lime, granatina, un po’ di creme de cassis, ghiaccio e soda: questa la ricetta. Il drink diventa comune tra le bevande messicane, mentre quelli che preferivano l’old school bevevano tequila, liquore all’arancia, succo di lime e una spruzzata di soda, ordinandolo con il nome di “Margarita”.
Il cocktail dall’intenso sapore, dunque, potrebbe essere nato al Los Dos Republicos di Matamoros, in Messico, nel 1934, quando un tale Willie lo creò per Marguerite Hemery, cliente abituale del locale. Si racconta, poi, che nei primi anni Quaranta un certo Enrique Bastate Gutierrez di Tijuana lo abbia creato come omaggio alla bellissima attrice Rita Hayworth, il cui nome di nascita era Margarita Cansino.
Quel che è certo è che la prima menzione della ricetta come la conosciamo noi ora appare nel ’37 all’interno del Café Royal Cocktail Book di William Turling, vera e propria “bibbia” dei bartender e preziosa raccolta di ricette alcoliche pionieristiche. A pagina 146, alla dicidura “Picador”: 1/4 fresh lime or lemon juice, 1/4 Cointreau, 1/2 Tequila. Shake. Sì, il nome è diverso ma la ricetta è quella.
“Un discorso ampio da fare, quello sui cocktail”, ci racconta Lorenzo Burrone. “Come si beveva duecento anni fa? Pensiamo a quello che accade nella gastornomia, dove ci sono vari condimenti: il ragù, il pesto, la carbonara. Che per la pasta si usino spaghetti, penne o rigatoni, il modo di condirla rimane lo stesso”. Poi, tornando a parlare del Margarita, continua: “Un tempo
esistevano degli archetipi di ricette che funzionavano per tutto. Il cocktail era più semplicemente un metodo di bere un distillato con l’aggiunta di zucchero, bitter
e acqua. Si poteva avere il Whisky Cocktail, il Brandy Cocktail, il Gin Cocktail…”.
Il Daisy, quindi, è arrivato in Messico e si è trasformato, ha preso il nome di Margarita e si è radicato a quella cultura seguendone tradizioni e usando i prodotti del luogo.
Tequila: l’ingrediente (per niente) segreto di una ricetta di successo.
La parola “Tequila”, elemento alla base di ogni buon Margarita, in lingua azteca significa “agave cotta”. Si tratta di un distillato di agave, nello specifico di agave blu, detta anche Azul, Weber o Tequilana (a differenza del Mezcal che veniva e viene fatto da diversi tipi di agave). Ne esistono un centinaio di varietà solo in Messico, ma il Tequila autentico può essere prodotto soltanto nello stato di Jalisko, dove c’è la città di Tequila. Il suo nome originario era appunto “El Mezcal de Tequila”, e Mezcal in lingua azteca significa “agave cotta”.
L’agave impiega dai sei agli otto anni per maturare, e la pianta dell’achiote marcisce in due settimane. In Messico questo tipo di coltivazione è una tradizione di famiglia e gli jimador coltivano e si tramandano quest’arte da secoli. Quando capiscono che le agavi sono pronte, le abbattono a mano per estrarre la piña, ovvero la parte centrale. La fanno cuocere per uno o
due giorni e poi la pressano nei vecchi mulini (tahona) per estrarne il succo (aguamiel), che poi viene fatto fermentare e soltanto alla fine distillato.
La formula di Lorenzo Burrone per un Margarita perfetto. “Una ricetta semplice ma con una parte citrica. C’è quindi una base, però poi bisogna aggiustare un po’ il tiro”, spiega Lorenzo Burrone, fornendoci le indicazioni per preparare un cocktail dal sapore sorprendente. “Per farlo, io utilizzo 50/60 ml di Tequila blanco, 100% agave azul, Cointreaux o, in sostitutiva, un triple sec, 15/20 ml di lime possibilmente spremuto – alla minute, come si dice in gergo – con un elbow squeezer. Questo è il più indicato perché spreme anche l’olio essenziale sulla buccia che ha una buona componente aromatica.
Nello shaker si può lasciare il mezzo lime esausto che rilascia olio essenziale extra. Coppetta e bordatura di sale: di solito io tendo a farlo metà soltanto, in modo che, a seconda del gusto personale di chi lo beve, può essere degustato con o senza. All’Octavius, ad esempio, lo bevono con il Mezcal perché piace quella nota affumicata. Ma qual è il Margarita preferito dal nostro esperto? “Tommy’s Margarita è la rivisitazione che è diventata un classico moderno di Julio Bermejo del Tommy’s Mexican Restaurant di San Francisco, che è anche l’ambasciatore del Tequila negli Stati Uniti. Tequila, succo di lime e, come parte zuccherina, utilizza lo sciroppo di agave che va a richiamare molto di più le note di agave cotta. Invece di farlo in coppetta
con il bordo di sale, lo serve ‘on the rocks’, bicchiere e cubetti di ghiaccio, lasciando il cocktail molto più fresco e morbido”.
Insomma, un cocktail dalla lunga storia e dall’attenta preparazione, da assaporare come aperitivo e non solo. Sapidità e dolcezza racchiuse in un’unica coppa, per un gusto sorprendente garantito!

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