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L’arte dell’impiattare. Dalla poesia di Gragnaire alla libertà di Adrià

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a cura di Chiara Almonte

Esistono due tipi di chef. Quelli che cucinano e quelli che stupiscono. La cucina è un linguaggio, una forma di pensiero. È un mondo di sapori, volumi, colori, consistenze, adattamento, tecnica e ispirazione. Un grande chef dice delle cose con la sua cucina. Il menù deve essere un discorso totale e ininterrotto.
Per creare bisogna partire dalle tecniche culinarie di base e avere la cultura per sapere decostruire, destrutturare e ricostruire un piatto per creare nuovi sapori, nuove tecniche e nuovi stili di presentazione. Il risultato deve apparire attraente, armonioso, non deve sembrare troppo affollato e ogni elemento del piatto deve avere una ragione per essere lì. L’impiattamento
è il risultato finale e non si limita e riempire il piatto, bensì include il piatto stesso, l’argenteria, il modo in cui viene servito e come deve essere mangiato e si è evoluto al fianco della cucina.
Nel Medioevo, per la nobiltà, una decorosa presentazione del cibo era importante per ovviare alla mancanza di raffinatezza e gusto delle pietanze, ma soprattutto per celebrare il suo potere. Gli stufati venivano serviti in pagnotte scavate, ma le carni venivano decorate con foglie d’oro e ingredienti rari e costosi usati senza parsimonia.
Fu Marie Antoine Carême, definito “il re dei cuochi e il cuoco dei Re”, a cavallo dell’Ottocento, spinto dalla sua passione per l’architettura, a diffondere l’idea dell’impiattamento del cibo con il fine di elevarne la qualità.

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