Marco Bartolomei food lifestyle

Dalla Sabina con… gioia! La cucina delle contaminazioni di Marco Bartolomei

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Le sette note possono essere combinate tra loro in migliaia di modi, dando vita a opere personali a volte uniche. Qualcuno ha detto che anche per le ricette di cucina vale la stessa cosa e Marco Bartolomei, titolare e chef del ristorante Papilla di Rieti, ne è un’eclettica, colorata e appassionata dimostrazione.
Eclettico Marco lo è nell’animo, di nascita, e il colore che ne deriva è quello che traspone nei suoi piatti; quello della passione, invece, è un discorso un po’ più lungo. Perché se l’intera vita lavorativa di Bartolomei è legata al mondo della ristorazione, i panni indossati fino al lockdown del 2020 sono stati quelli di imprenditore e patron, non quelli di cuoco. Ed ora che il vestito è mutato, alla casacca bianca da chef ha sostituito divise calate sull’estrosità del suo carattere ma anche sulla misura del rispetto per chi questo mestiere lo fa “da una vita”.

Marco, quasi in controtendenza, in periodo di pandemia hai scelto di cambiare giacca, di fare il cuoco…
“Proprio così, ma per fortuna – ride – al mondo della ristorazione ci ero già legato da un bel po’! Le mie attività imprenditoriali sono sempre state connesse al mondo del food. Nasco da una madre cuoca che tra un po’ in cucina mi ci faceva pure nascere, perché stava preparando gli gnocchi quando ho deciso di venire al mondo e la portarono via dai fornelli di peso! L’aria e la passione per la ristorazione l’ho respirata fin da bambino e al momento di scegliere la strada degli studi feci giurisprudenza perché volevo entrare nell’azienda di papà e così fu! Ho condotto l’impresa partendo dalla ristorazione collettiva, e quindi mense scolastiche e aziendali, fino ad arrivare alla proprietà e gestione di ristoranti tradizionali. È stato un percorso in escalation a livello imprenditoriale, ma il naso in cucina ce l’ho sempre messo!”.

marco bartolomei food lifestyle
credit Bianca Passarani

Cioè contribuivi all’ideazione del menu e dei piatti?
“Sì nei miei locali il mio imprinting è sempre stato presente. Ho sempre amato cucinare e ho portato avanti negli anni gli studi in maniera indipendente. Nelle cucine non mettevo le mani perché avevo molte altre cose da gestire, ma parlavo lo stesso linguaggio dei cuochi e per questo ho fatto anche battaglie accese. Insomma, un po’ di vena creativa ed estrosa che mi caratterizza ci doveva essere nei piatti che i miei ristoranti servivano!”.
Perché non indossi la giacca bianca?
“Perché credo sia qualcosa di importante, quella giacca bianca rappresenta un’istituzione di chi ha avuto una formazione specifica e poi ne ha fatto un’evoluzione. Io sono un’autodidatta e quindi non la ho mai indossata, e forse non lo farò mai. Certo, ho il mio stile dettato da ricerca e studio fatti in autonomia e ho collaborato con chef importanti, oltre a star iniziando proprio ora un percorso di studi importante… ma di fatto è da poco che ho vestito questo mestiere”.

Una decisione presa in tempo di Covid…
“Mi ci sono avvicinato molto delicatamente e la pandemia me ne ha dato la possibilità. Probabilmente quello di stare in cucina era un sogno che coltivavo da sempre, e di una necessità ne ho fatto una opportunità. Col lavoro che ha subito un contraccolpo avevo molto personale in cassa integrazione. Ho deciso di tenere uno solo dei locali che gestivo e mi sono messo ai fornelli, affiancato da personale formato ovviamente. Ho iniziato un po’ a giocare, a sperimentare… fino a che i miei clienti, sorpresi del fatto che i piatti li avessi cucinati io, hanno iniziato a tornare per assaggiare la mia cucina. E allora ho schiacciato l’acceleratore. Ho capito che forse quella che avevo intrapreso era proprio la strada giusta. Ho deciso di investire al Papilla tutto il mio amore e passione e poco a poco ho alzato il livello, anche qualitativamente: materie prime di eccellenza, poco lavorate, e per la maggior parte locali”.

Ingredienti che narrano un territorio di cui si parla, a livello gastronomico, sempre molto poco. Raccontaci la Sabina.
“Sono molto legato alla mia terra e ho calato le mie idee imprenditoriali sempre qui. Rieti è una piccola cittadina, collocata in una regione che ha un’espansione geografica molto ampia ma non molto abitata. È un territorio all’insegna della natura, perché abbiamo la montagna, i laghi, i fiumi, la collina, la campagna… Una cultura legata moltissimo al green, al verde. Una terra ricca di uliveti, tanto che l’olio DOP della Sabina è un prodotto di eccellenza molto conosciuto. Abbiamo le grandi risorse dei fiumi e dei laghi, e ecco un’altra eccellenza, il pesce di acqua dolce: la trota fario, le trote salmonate, le trote iridee… Ma ci sono anche ottimi prodotti caseari, storicamente legati alla pastorizia e quini latte vaccino e ovino e tutti i loro derivati, a partire dal pecorino. E ancora, dove c’è pastorizia, a tavola si porta la carne: l’agnello, la pecora. Non mancano poi le coltivazioni di grano e farro; non dimentichiamo il tartufo, le patate di Leonessa, asciutte e con peculiari proprietà organolettiche… Ma ancora l’uva, anche se la viticoltura non è massiva. Insomma, la conformazione geografica della Sabina ci permette una ricchezza gastronomica infinita. E ho deciso di raccontare, attraverso i miei piatti, il valore aggiunto di questa terra”.

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credit Bianca Passarani

Tu però non offri solo piatti tradizionali sabini, ma rivisiti con prodotti locali i classici della tradizione italiana…
“Assolutamente! Parto da piatti italiani e li realizzo con una forte contaminazione territoriale sabina. Poi chi è in cucina con me si arrabbia perché spesso faccio variazioni così su due piedi… Seguo l’istinto del momento!”.

La tua firma in cucina potrebbe chiamarsi “spontaneità”?
“Decisamente sì e a volte mi rendo conto di esserlo fin troppo, ma è quello che mi diverte. Per me la cucina è un gioco costruttivo, usando una buona materia prima e cercando di trasmettere gioia e divertimento a chi assaggia i miei piatti. È questa la forza che mi spinge nell’elaborazione di un piatto e questo spesso mi porta all’immediatezza: mi capita di strutturare un piatto senza studiarlo troppo, seguendo l’intuito. Quello che tengo a sottolineare però è che per me la cosa più importante è la materia prima, che deve mantenere il suo sapore identificativo e dunque non va manipolata troppo. La materia principale viene cotta il più semplicemente possibile, è poi nell’abbinamento, nella contaminazione con altri ingredienti che scatta il gioco: una cromaticità particolare, un effetto di consistenze… Il tutto però senza alzare troppo il livello”.

In che senso?
“Quando si alza troppo il livello tecnico il rischio è quello di perdere, o comunque far passare in secondo piano, il gusto. La cucina è di cinque i sensi, che vanno sempre mantenuti tutti in un piatto. Questo significa che di sicuro l’impiattamento deve essere di impatto, il colore accattivante, ma nulla deve andare a discapito del gusto. Perché tutto nel mestiere di un cuoco è ricondotto al gusto. Va bene far divertire il cliente con il bello, con il giusto senso estetico, ma il protagonista finale e assoluto del piatto deve essere il gusto. La materia è la materia e le sue proprietà organolettiche non vanno alterate: se porto in tavola un pesce di lago, deve sapere di pesce di lago!”.

Come ti nasce l’idea di un piatto?
“I miei piatti possono nascere da un ingrediente, ma anche da un colore, o da un nome. Quello che mi accade sempre è un processo mentale che mi porta a giocare in cucina”.

Un esempio di un piatto nato da un colore?
“Cavolo che colori è il nome di un piatto che ho ideato questo inverno. E l’idea è partita dai colori del cavolo: viola, bianco e giallo. È un piatto che vuole unire l’acqua dolce al mare attraverso la terra, rappresentata dai cavoli. È composto da tre cubi di luccio cotto a bassa temperatura, e quindi in totale rispetto del prodotto, che poggiano su tre creme di cavolo di colori diversi. E il cavolo diventa trait d’union con il mare perché ogni crema ha un elemento marino all’interno: il cavolo giallo ha le vongole, ovvero è una crema di cavolo fatta in acqua di estrazione di vongole; il cavolo viola ha alici di Cetara; infine il bianco ha un sapore un po’ più estremo perché ha la bottarga. A guarnire il tutto ci sono dei fiorellini di cavolo sia in cruditè che spadellati con aglio, olio e peperoncino, come è tipico della cucina sabina. L’unica cosa che non mi piace di questo piatto è che è troppo stagionale!”.

marco bartolomei food lifestyle
credit Bianca Passarani

E il baccalà che non vuole essere livornese?
“Anche questo piatto nasce da un colore, e in particolare dal rosso di un gel di pomodoro. Il baccalà è servito in una scodella con questa vellutata gelatinosa di pomodori e si mangia al cucchiaio. Il piatto è completato da cipolla rossa in agrodolce caramellata e capperi disidratati. Ed ecco che ho spinto il baccalà, che non lo voleva, ad essere livornese. E il colore predominante è il rosso!”.

Una cucina che racconta il territorio sperimentando giochi che divertono i cinque sensi. Come la tua verticale di pane e olio…
“È un’entrée e racconta due prodotti chiave della Sabina: il grano e l’olio extravergine del Consorzio DOP. È un piatto che si mangia da sinistra verso destra. Si parte con del pane di un panificio artigianale locale con sopra del pomodoro e vicino è poggiata una boule con l’olio extravergine: la classica merenda di una volta. Il secondo assaggio è un crostone di pane raffermo rigenerato con olio e aglio, che riporta ai profumi della bruschetta, poggiato su una battuta leggera di pomodoro fresco condita con olio e sopra ho giocato con la consistenza dell’olio, proponendo una crema di olio extravergine di oliva. L’ultimo assaggio è la mia interpretazione più estrema, che fa capire come in cucina ci si può divertire e cambiare la texture degli alimenti. Nasce così il pane di cristallo: il pomodoro alla base diventa un gel vellutato fatto da pomodori in purezza e il pane è completamente trasparente, fatto di soli amidi, che dà quel crunch in bocca che riporta alla sensazione del pane croccante. A completare il boccone una spuma di olio e della terra di olive. Ecco, questo è un esempio di reinterpretazione che però non tradisce il gusto, perché alla fine i protagonisti restano il pane e l’olio”.

Dai molto spazio al pesce di lago nelle tue proposte…
“Sì, nel mio piccolo cerco di essere portavoce del vero sapore di questi prodotti. Li contamino il meno possibile, cercando ingredienti in abbinamento che non vadano a discapito della loro essenza. Ad esempio lo spaghetto di persico reale ha una base di aglio nero che non va a intaccare la delicatezza del pesce. Anche in questo caso quindi le mie interpretazioni non sono mai estreme”.

Marco, per carattere e per esperienza lavorativa sei non solo una persona creativa ed esuberate, ma anche un grande comunicatore. So che ti piace il contatto con i tuoi clienti, chiacchierare con loro, e una delle tue proposte di cucina racconta proprio questo tuo lato…
“La mia cottura al cannello! Una proposta che interpreta il mio carattere certo, ma anche la mia idea di cucina che vuole coinvolgere tutti e cinque i sensi tenendo fermo e forte il gusto. E infatti questa proposta in menu è chiamata proprio i cinque sensi! È una tecnica di cottura che viene fatta davanti al cliente, in sala. Arrivo con un carrello con dei cubetti di carme cruda; la prima cosa che faccio è affumicare col cannello del rosmarino. Poi, sempre col cannello, cucino piano piano la carne, mentre racconto cosa sto facendo. Prima di servire affumico un altro po’ di rosmarino e chiedo ai commensali di mangiare il primo pezzettino di carne con le mani. Un procedimento che coinvolge vista, olfatto, udito, tatto… e infine, supremo, il gusto!”.
Come descriveresti in una sola frase la tua cucina?
“Enjoy Food! Che vuol dire goditi il piatto, ma racconta che il mio divertimento in cucina. Quando smetterò di divertirmi, se mai dovesse succedere, mi rimetterò la giacca e la cravatta e farò altro”.

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