Sembrerebbe un aforisma o una dicotomia ma la filosofia di “Confusion”, primo e unico ristorante stellato della Costa Smeralda in quel di Porto Cervo, racchiude in sé tutto il concept della cucina di Italo Bassi, chef viaggiatore, sognatore ed esploratore. “Confusion” nel senso di unione e contaminazione di diverse culture, di diversi modi di intendere la cucina, di diversi gusti e palati. “Confusion” quale viaggio edonistico in un ambiente curato, studiato e adattato alla Sardegna, terra selvaggia, ricca e dalla forte identità che può decisamente fare la sua parte nel successo di Italo Bassi, chef dalla lunga storia ma dallo spirito ribelle sempre pronto a mettersi in gioco e a re-inventarsi.
Raccontaci come inizia la tua giornata.
La mattina mi sveglio presto, perché è l’unico momento che dedico a me stesso, facendo una passeggiata al mare con i miei cagnolini. Poi vado al ristorante a fare colazione , il tutto con molta calma e vedendo meno persone possibili (ride). Inizia così la mia giornata, che si articola in più fasi e dove poi si finisce sempre a notte tarda. Ma per il lavoro si fa questo e altro.
Come sei approdato a Porto Cervo da Verona?
Inizialmente è nato il ristorante “Confusion” a Verona, che poi ho duplicato a Porto Cervo. Vedendo che la situazione era più congeniale in Sardegna per quello che è la mia filosofia, il tipo di clientela e la qualità della materia prima, ho deciso di concentrare tutta la mia energia qui e di chiudere quello di Verona. Raggiunta un certa età bisogna fare delle scelte,
altrimenti rischi di rimanerci secco (ride)!
Qual è la tua filosofia di vita?
Non mi piace sedermi sugli allori, sono molto dinamico, e mi prefiggo sempre degli obiettivi. Cerco di non sentirmi mai totalmente appagato, anche perché il periodo lavorativo è concentrato da inizio primavera a fine autunno . Poi ho tutto il resto dell’anno per rilassarmi e soprattutto per viaggiare e pensare a nuove cose. Lavorare 365 giorni a ritmi forsennati non è fattibile: passati i 50 anni bisogna scegliere che cosa si vuole fare da grandi e io ho deciso di non voler morire in cucina! (ride).
Che filosofia c’è nella tua cucina e nei ristoranti che curi?
Con Confusion volevo ricreare un posto edonistico dove la gente si sentisse veramente appagata e a proprio agio come a casa propria. Lo stile “Confusion” unisce la cucina, il servizio, l’arredamento e la proposta enologica. Non si ferma solo al luogo dove si è ma cerca di evadere unendo anche altri mondi. La base della cucina è la materia prima, con una particolare attenzione alla ricerca del grande prodotto di cui la Sardegna è ricchissima. Tutto questo è l’origine anche del nome Confusion, che unisce questo territorio e i suoi prodotti alle influenze acquisite dalla mia esperienza, dai miei viaggi, dall’ essere stato a contatto con altri tipi di cucine, altre culture, altre mentalità, con altri chef di diversi paesi. La contaminazione del prodotto locale con qualcosa che ti faccia volare con la mente a un ricordo, a un viaggio, a una vacanza, a qualcosa che è lontano dal posto in cui ti trovi, è l’essenza della mia idea di cucina.
Che palati vuoi soddisfare nel tuo locale?
I clienti che vengono da me sono quelli che vogliono mangiare bene, e trascorrere bei momenti, che non abbiano una laurea in gastronomia per capire quello che stanno mangiando perché tutti i piatti devono essere “orecchiabili”. In ogni piatto, non ci devono essere più di 3 o 4 ingredienti, facilmente leggibili. La materia prima deve essere eccellente e l’accostamento deve valorizzare al meglio il prodotto principale.
Che cosa rende i tuoi piatti ammiccanti?
Secondo me, in primis la grande ricerca della materia prima, incentrata sulle eccellenze del territorio; poi, i vari ingredienti che compongono il piatto, ed infine quel pizzico di passione e amore che penso, senza voler essere presuntuoso, che li rendano unici.
Quando hai scoperto l’amore per la cucina e hai capito che sarebbe stata la tua professione?
Diciamo che è nato tutto per caso, senza grandi apparizioni mistiche o vocazioni. Ho avuto la fortuna di nascere in una grande famiglia di contadini e crescere in una grande cascina con più di 24 persone. Mia madre stava in cucina e io stavo attaccato alla sua gonna. Avere la fortuna di cogliere i frutti dagli alberi o le verdure dall’orto e mangiarli è stato molto formativo per me. In più, la qualità dei prodotti era molto alta, perché le persone che si sedavano a tavola erano esigenti. La mia vera fortuna è stata quella di fare della mia passione la mia professione. Hai lavorato alle’Enoteca Pinchiorri per tantissimo tempo e poi da dipendente sei diventato imprenditore.
Cosa ti ha spinto a questo passaggio?
È stata un’esperienza importante nella mia formazione, ma a un certo punto non sentivo più stimoli, era diventata troppo standard per me e ho sentito la necessità di mettermi in gioco in prima persona. A volta fare un passo indietro è utile per poi farne molti altri in avanti, sempre camminando con le proprie gambe e ragionando con la propria testa. A 20 anni sei stato a lavorare in Giappone… Si, sono stato ad aprire l’enoteca Pinchiorri a Tokyo, dove sono stato anche il primo chef. É stata una grande esperienza ma sopratutto una grande avventura, considerando che eravamo alla fine degli anni 90 e, quindi, siamo stati dei pionieri della cucina italiana nel Sol Levante. Abbiamo cercato di imporre lo stile della vera cucina italiana, abbattendo quel preconcetto di pizza e spaghetti con cui ci conoscevano nel mondo. Proporre prodotti italiani è stata una bella sfida, che però ha avuto il meritato successo, visto che dopo 30 anni, l’Enoteca è ancora ai vertici della cucina nipponica e non solo.
Cosa ricordi di quell’esperienza?
Tantissime cose e in primis l’amore per il Giappone con la sua estetica, il suo rigore e l’educazione dei Giapponesi. É stato il mio primo viaggio all’estero in assoluto e mi ha aperto la mente e ha cambiato il mio modo di pensare. Mi ha fatto fare quel salto per diventare grande. Non era tutto scontato come oggi. Erano altri tempi, senza internet, voli low cost, cellulare. Parlarne oggi sembra strano, ma all’epoca era la normalità. Sono riuscito, nonostante non parlassi una parola d’inglese, a farmi rispettare, a trasmettere degli insegnamenti e a formare tanti giovani chef. Avevo portato il concetto della pasta fresca per trasmettere il messaggio che non esistevano solo gli spaghetti e uno dei tanti chef che ho formato, a distanza di anni ha, aperto un ristorante con il simbolo del cappelletto romagnolo nelle sua insegna. Per me è stata una soddisfazione incredibile.
Igles Corelli è stato il tuo maestro?
Sì, è quello che mi ha aperto la mente per primo. Ci siamo ritrovati dopo 30 anni a un corso ed è stata una cosa bellissima. Per me è stata una fortuna lavorare con un personaggio così
eclettico, così avanguardista che mi ha insegnato a volare. Io, poi, ho cercato altri cieli in cui farlo, però gli sono riconoscente. Diciamo che grazie e lui ho annusato l’idea di un mondo di ristorazione diverso da quello classico della riviera romagnola a cui ero pre-destinato a fare stagioni.
Futuri progetti nel cassetto?
Quelli non mancano mai e ne è partito uno da poco. Ho avviato due nuovi ristoranti a Bonifacio per non farmi mancare nulla (ride). Il primo è un bistrot chiamato “d’Amore”, affiancato a un ristorante gastronomico molto ambizioso chiamato “Finestra d’Amore”, che deve il nome al suo meraviglioso affaccio sul porto di Bonifacio. É nato dalla collaborazione ma soprattutto dall’amicizia con uno dei miei primi clienti qui a Porto Cervo. Nato l’anno scorso come idea, ha preso vita a giugno: una nuova sfida che mi impegna molto, ma di cui sono molto orgoglioso e soddisfatto.
Qual è il segreto del tuo successo? Che cosa vorresti vedere nel tuo prossimo futuro?
Sono molto orgogliosa di quello che sono riuscito a fare e molto felice delle opportunità che la vita mi ha dato. Bisogna avere sempre la possibilità di sbagliare e incontrare le persone
che ti diano la possibilità di farlo. Le stelle non cadono per nulla, bisogna anche andarsele a cercare per vederle cadere. Essere curiosi è fondamentale così come portare avanti le proprie idee. Spero di riuscire a trasmettere ai giovani il mio modello, la mia filosofia e la mia eredità. Sarei molto orgoglioso di vedere i miei ragazzi crescere e prendere il mio posto, diventando anche più bravi di me!