Nato a Conegliano Veneto (TV) nel 1968, Alessandro Breda ha frequentato l’istituto alberghiero di Falcade (BL) e dopo svariate esperienze in ristoranti stellati è entrato a far parte, a soli 19 anni, della brigata di Gualtiero Marchesi, dove è rimasto per oltre tre anni. Ha lavorato al ristorante Tantris di Monaco di Baviera con lo chef Heinz Winter per tre anni, a cui è seguito un anno presso l’Enoteca Pinchiorri. Dopo un anno al Four Season di Londra, ha deciso di aprire un piccolo ristorante a Corbanese di Tarzo, Il Capitello, che ha gestito per sei anni. Dal 2000 gestisce il Gellius di Oderzo, che si è aggiudicato nel 2004 una stella Michelin.
Alessandro Breda si racconta
– Intervista di Francesca Orlando
“Che meraviglia questa saletta!” gli dico quando entro.
“Suggestiva, queste erano le carceri – mi risponde – ora l’unico prigioniero sono io!”. E ride, una risata pacata che mi infonde serenità.
“Ma come, da piccolo volevi volare e poi sei finito rinchiuso nelle segrete?”. Sorrido anche io, mentre ci sediamo a un tavolo da cui ci alzeremo un’ora dopo. Lui pronto per avviare il servizio del pranzo di un sabato di calda primavera, io con la gioia nel cuore per aver scoperto un uomo vero, una persona buona, ma determinata e con una grande passione per il suo lavoro.
Alessandro Breda è così, mite come la sua risata, riservato ai più, ma che quando trova empatia mostra tutto se stesso. Un uomo che crede in quella che io chiamo arte innata, che ha origine insieme a ciascuno di noi. Che ritiene che senza sacrificio non si arrivi da nessuna parte e anzi proprio il sacrificio e l’impegno, assieme alla predilezione per ciò che fai, portino alla realizzazione di te stesso. Un uomo che in cucina dà ai suoi collaboratori un grande insegnamento: ognuno di noi ha dei limiti, ma dobbiamo accettarli, perché nasciamo con una vocazione e dobbiamo ascoltare solo quella.
Lui l’ha ascoltata: “Sì, da piccolo volevo fare il pilota di aerei, ma mi piaceva anche cucinare. Ho scelto di fare l’alberghiero, ed ora eccomi qui!”.
“Perché hai scelto il Gellius?”
“Mi sono innamorato della bellezza di questo posto, la cosa determinante però è stata la conoscenza del suo proprietario, che è un bravissimo imprenditore, ma prima di tutto una grandissima persona. Sono rimasto colpito dalla sua forza e determinazione, a me piacciono le persone determinate. Non è stato facile portare a termine il progetto di restauro, quando sono stati rinvenuti i resti romani, ma lui ce l’ha messa tutta. Ha creduto nel suo sogno e io ho deciso di crederci con lui, così quando mi ha chiesto di gestire il Gellius ho detto sì. È una di quelle persone che riesce a tirare fuori il meglio di me”.
“Mi stai dicendo che sono le persone che fanno la differenza… Nelle tue scelte di vita è stato questo ad essere determinante?”
“Assolutamente sì. Io sono una persona introversa, faccio fatica ad aprirmi, ma con alcune persone sento a pelle un feeling ed è allora che nascono dei bellissimi rapporti di lavoro o di amicizia”.
“Gualtiero Marchesi è stata una di quelle persone?”
“Lui e il periodo trascorso nella sua cucina sono stati molto importanti, sì. Io sono sempre stato molto tenace e ho talmente insistito nel chiedere di far parte della sua brigata che alla fine credo di averlo non convinto, ma sfinito! In quegli anni non c’erano tanti ristoranti eccellenti come oggi, le tre grandi scuole erano Marchesi, il San Domenico a Imola e la Locanda Paracucchi. Se volevi crescere, ottenere da te stesso qualcosa di più, era lì che dovevi andare. Marchesi ha contribuito molto dal punto di vista educativo; lui ha fatto capire a noi giovani che essere cuoco non significa solamente stare in cucina. Lui diceva che il cuoco è un ministerium: onestà, pulizia, rispetto delle regole… ci ha insegnato tutto questo. Sai, allora in Italia il cuoco era visto come una persona un po’ rude, rinchiusa in cucina, magari ignorante e single e quindi disposto a svolgere un lavoro faticoso che lascia poco tempo per te stesso. Oggi la figura del cuoco si è nobilitata e molto è dovuto proprio a Gualtiero Marchesi”.
“Oggi sono cambiati anche i canoni in cucina?”
“Moltissimo. Una volta la cucina era codificata: se decidevi di reinterpretare alcune ricette, dovevi seguire rigorosamente determinate regole. Ad esempio il filetto alla Rossini doveva essere fatto col tartufo nero, il fegato grasso e così via. Adesso è un po’ tutto a libera interpretazione, anche la mise en place e l’impiattamento, che una volta avevano dettami rigorosi. Ovviamente i ristoranti di un certo livello hanno delle regole precise, ci sono degli standard da rispettare, ma ora lo chef è autore, cucina in maniera molto personale”.
“Come si fa a riconoscere in un piatto la personalità dello chef?”
“Bella domanda! Io con tre piatti davanti saprei riconoscere subito quello di uno dei grandi chef italiani, ma non sono molti. Cracco ha una firma forte, io lo conosco da molti anni e nutro verso di lui una grande stima. Riesco a individuare quasi tutti i suoi piatti, anche se sono nuovi riconosco la sua idea, la sua impostazione. Marchesi ovviamente ha dei “piatti firma”. Altri chef che hanno fatto un certo percorso e hanno un carattere in cucina sono Pablo Priore, Enrico Crippa, Davide Oldani…”
“Alcuni di loro erano in brigata da Marchesi assieme a te”
“Sì, quando sono arrivato, oltre a moltissimi stranieri, c’erano Andrea Berton, Carlo Cracco, Paola Budel ed Enrico Crippa, che partì subito dopo per il militare. C’era anche Ernst Knam. Tutti ragazzi con una gran fame di sapere; c’erano alcuni più determinati di altri, ma tutti con “qualcosa da dire”. È stato un bellissimo periodo!”.
“Cosa mette Alessandro Breda di sé nei piatti?”
“Oh, a me piace tanto vivere, sotto tutti gli aspetti, e mi piacciono molto le cose fatte bene, ragionate. E le cose buone! Cerco di concentrarmi molto sull’essenza del gusto, sulla ricerca delle materie prime e sulla stagionalità dei prodotti. La stagionalità per me è davvero importantissima, credo sia un patrimonio da salvaguardare, al pari delle ricette tipiche di un territorio. Per creare i piatti mi lascio trasportare spesso proprio dai prodotti della stagione. Per esempio le erbe spontanee: le guardo, le tocco, le assaggio e poi si mette in moto l’idea… Adoro l’equilibrio e cerco sempre di trasmetterlo nei miei piatti, grazie ai contrasti come una punta di acidità o di amaro. Ma l’equilibrio è dato anche dalla sensazione nel morso, sul palato e dall’attenzione alle cotture. Cerco sempre di inserire il croccante nei miei piatti, qualcosa di fritto o secco, oppure anche crudo: l’importante è che al morso ci sia il crunch. Il piatto deve dare una sensazione di piacere, e poi deve attrarre e far venire voglia di essere assaggiato”.
“Qual’è il piatto dello chef Breda che piace di più ad Alessandro?”
“L’uovo cremoso, che è la trasformazione dell’albume d’uovo. L’albume, quando coagula, assume una consistenza compatta; io lo emulsiono tanto con l’aggiunta di brodo e panna e così diventa molto cremoso. In bocca dà proprio quella sensazione piacevole che cerco sempre”.
“Essere uno chef non significa solo cucinare vero?”
“No. Il cliente non si siede a tavola, mangia e va via…”
“Il cliente cerca un’interazione, non un semplice consumo. L’attenzione alle persone che si siedono in sala è determinante: lo chef e il personale di sala devono essere all’altezza di capire che grado di coinvolgimento desidera il cliente ed ogni cliente, ogni tavolata, è diverso dall’altro. Ci sono delle serate molto complicate in questo senso: un gruppo di amici festosi, una coppia in crisi, qualcuno che chiede menu particolari. Ognuno ha le sue esigenze e aspettative e vanno tutti rispettati. Mantenere un clima di serenità è fondamentale”.
“Hai uno staff molto giovane, sia in cucina che in sala”
“Mi piacciono molto i giovani, credo sia importante istruirli, passare loro il testimone della cultura gastronomica”.
“Come li scegli?”
“Al di là del loro curriculum faccio sempre dei lunghi colloqui. Mi piace capire il loro carattere, la loro educazione. Non cerco fenomeni, poi se capitano ben vengano! Cerco delle persone educate, rispettose, preferibilmente istruite, adoro riconoscere nei loro occhi l’entusiasmo. Devono amare e voler fare veramente questo lavoro, perché se non hai la vocazione e la passione non arrivi da nessuna parte. Chiedo sempre cosa vogliono fare da grandi, che non è una domanda sciocca come qualcuno potrebbe pensare. Oggi molti credono che fare il cuoco sia facile, che sia un mestiere un po’ per tutti. È vero, come per tutte le cose, ognuno può imparare, ma senza vocazione hai vita breve. La vocazione è determinante per il risultato. E poi ci vuole spirito di sacrificio, tanto, sia in cucina che in sala. Anche per lavorare in sala ci vogliono vocazione e determinazione, nemmeno quello è un mestiere che tutti sanno e possono fare”.
“La determinazione è ciò che ci permette di realizzare i nostri sogni e noi stessi?”
“Credo di sì. Ognuno di noi nella vita realizza se stesso quando fa ciò che per vocazione ha dentro, qualunque mestiere sia, nei limiti che ognuno di noi ha, perché non tutti siamo nati per fare tutto. Io ad esempio non sono portato per fare comunicazione, per stare sotto i riflettori, mi sento a disagio. Ma per fortuna ci sono delle persone che lo sanno fare bene. Ti racconto una cosa. Ho incontrato di nuovo Carlo Cracco, qualche anno dopo il tempo passato insieme da Marchesi, all’enoteca Pinchiorri, dove siamo rimasti un anno. Carlo ha sempre avuto una marcia in più, fin da ragazzo. Io sono un giocatore di tennis e al tempo giocavo piuttosto bene. Al Pinchiorri facemmo un torneo interno e mi ritrovai in finale con lui. Ero tranquillo perché sapevo di giocare meglio di lui… Mi ha stracciato! Mi ha sfibrato, davvero. Ha vinto! Questo rende l’idea di quello che voglio dire. Carlo è sempre stato determinato, dove puntava arrivava. Bisogna avere stoffa. Non tutti siamo fatti per arrivare a certi livelli, lui ce l’ha ed è un esempio di come determinazione e sacrificio siano fondamentali per realizzare i proprio sogni e seguire la propria vocazione”.
“Alessandro, cosa vuoi fare da grande?”
“Il pilota di aerei!”.
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