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L’estetica del cibo diventa amplificatore del gusto

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A cura di Mafalda D’Onofrio.

Nell’era degli show cooking in tv non sono i profumi e il gusto – che nessuno può percepire – a decretare il successo di un piatto, ma è l’estetica. Si chiama “impiattamento” ed è l’arte di presentare il cibo in modo attraente, componendo forme e colori, giocando su affinità, contrasti e accostamenti. L’imperativo categorico è piacere agli occhi, prima ancora che al palato. Condividere il cibo non significa più sedersi allo stesso tavolo ma diventa condividerne l’immagine nel mondo virtuale.

Su Instagram, regno incontrastato dell’estetica culinaria, l’hashtag #foodporn conta 192 milioni di post, #instafood 141 milioni, #delicious più di 93 milioni, per citare solo i primi 3. Perché, prima ancora del profumo e del gusto, al nostro cervello arriva l’immagine, che genera una reazione istintiva. Così, l’occhio si prende la sua parte, domina sul sistema percettivo umano, decide il buono assaporando il bello prima che il gusto venga attivato. Come dichiara Enrico Crippa, presentando il suo menu di Piazza Duomo di Alba: «Prima di tutto questi piatti sono belli. Poi, sono annunciati dal loro profumo: il palato è solo una conferma».

L’impiattamento è un gioco di proporzioni, livelli, colori e consistenze in cui il design di piatti, vassoi e coppette deve esaltare il contenuto della portata, evidenziandone le caratteristiche. Studia le geometrie, le cromie, le consistenze, i volumi dei cibi. Impiattare è un progetto. E come per qualsiasi progetto, servono tecnica, rigore e soprattutto regole, che si evolvono con il passare del tempo e dei gusti. Accadeva anche nel Medioevo o nel Rinascimento: il cuoco creava effetti cromatici che appagassero la vista prima del gusto, data la funzione primaria della tavola (quella del principe, s’intende) come luogo di ostentazione e di spettacolo. Dalla regola del 3 (tre ingredienti: un elemento principale, una componente di verdura, un amido) alla Nouvelle Cuisine, dall’impilamento a torre all’ondata molecolare: oggi prevale la ricerca della semplificazione e della destrutturazione delle forme. L’aspetto accattivante del piatto è dato da decorazioni essenziali che non lo soffocano ma che esaltano le proprietà naturali di ogni ingrediente, grazie a un impatto visivo accattivante.

Il gioco di consistenze, alternando liquido, croccante, morbido e polveri, mantenendo un equilibrio dei sapori, comunica anche la creatività dello chef, la sua idea di cucina. Il menu “Sensazioni” dell’Osteria Francescana di Bottura è la sintesi dell’estetica al servizio dell’esperienza gastronomica, della memoria, del gioco tra immagine e somiglianza: ordinando “Omaggio alla Normandia” riceveremo un’ostrica ma in realtà mangeremo un battuto di agnello présalé con emulsione di acqua filtrata di ostriche, caviale e olio extra vergine d’oliva, alghe fresche e granita di sidro.

Al Geist di Bo Bech i piatti ci ricordano che il design è ovunque: nel progettare un nuovo modo di strutturare un piatto già visto, nell’inventare nuove consistenze e sperimentare nuovi contrasti. Ci si muove su un asse multisensoriale e lo chef dispone delle materie prime e ci gioca come se fossero colori primari da mischiare su una tela, creando nuove forme innaturali o somiglianti a tutt’altro. Stupire il cliente che vuole sempre più essere sorpreso, attirare l’attenzione e incuriosire attraverso la vista, creando l’aspettativa prima ancora che la posata raggiunga la bocca, introdurre l’unicità dell’esperienza che viene consumata a tavola, in cui tutti i sensi sono coinvolti: l’estremo portavoce di questa filosofia, David Muñoz, propone, nel suo DiverXo, percorsi di degustazione costituiti da “tele” composte da più elementi che i camerieri dispongono gradualmente sulla tavola, assemblando il piatto mentre lo si sta già mangiando, in un susseguirsi di assaggi quasi senza soluzione di continuità. Alcuni piatti, come “Il viaggio al mercato di Tsukiji“, vengono serviti proprio sulla mano, e da questa, leccati via. L’estetica non è un vezzo narcisistico ma diventa amplificatore sensoriale del gusto, la chiave multisensoriale che chef e personale di sala utilizzano sotto forma di performance art: la messa in scena dell’esperienza gastronomica.

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