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Dalla Lorena ai borboni, il babà, dolce degno di un re

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a cura di Chiara Almonte

Passeggiando per Napoli, puoi passare le giornate ad assaggiare le sfogliatelle, la pastiera, le delizie al limone nelle meravigliose pasticcerie. Lungo le piccole vie si sente il profumo delle frittatine e dei rustici e vedi una signora che si pulisce le mani sul grembiule e urla forte un nome con in mano una enorme pizza a portafoglio.
Dopo pranzo è tipico sedersi sulle sedie dello storico Gambrinus in Piazza del Plebiscito e prendere l’ennesimo caffè, anelando alla pasta patate e provola e alla mozzarella che “caccia o’ latt’” (come dicono qui a Napoli) che si mangerà quella sera. Poi, si cammina sul lungomare, sgranocchiando un tarallo sugna e pepe, ci si addentra nei quartieri spagnoli,
perdendosi nella teatralità e musicalità di Napoli dove dietro l’angolo si potrebbe trovare il più buon babà mai assaggiato.
La gente qui li fa da centinaia di anni e sembra quasi che li abbiano inventati loro, tanto da entrare nel gergo partenopeo con quel “si nu’ babbà”, con la doppia b, che vuol dire “sei un tesoro”, metafora di bontà, dolcezza e bellezza di una persona.
L’origine del babà ci riporta al Settecento, a Lunenville, in Lorena, quando Stanislao Leszczyński, re polacco in esilio, bagnò con del Madeira una fetta di kugelhopf, un dolce austriaco simile ad una grande brioche, per prolungarne la morbidezza nei giorni successivi alla sua preparazione.
La passione per la gastronomia di Leszczyński lo stimolò a perfezionare il vecchio dolce austriaco con tre lievitazioni facendovi aggiungere uvetta, canditi e addirittura lo zafferano, che aveva conosciuto a Instanbul. Da Lunenville, il dolce arriverà a Versailles, dove viveva la figlia Maria, che all’epoca aveva sposato il re di Francia Luigi XV. Qui era in voga il rum giamaicano che sostituì il madeira. Perse lo zafferano e i canditi e acquisì la classica forma a fungo con “turzo” e “capocchia” grazie al polacco Nicolas Stohrer, il pasticcere di Stanislao, che Maria si era portata a corte.
In una lettera a Voltaire, Leszczyński parla di questo dolce, ormai privato della preziosità dei canditi: “Lo scorso mese mi hanno presentato un Babà, così lo chiamano ora, talmente inzuppato di liquore che gli ho dato fuoco. Perde di leggerezza e memoria”.
Si dice che il sovrano polacco gli diede il nome di Ali Babà per le fiabe del libro “Le mille e una notte”, ma è molto più probabile che provenga da babka, la gonna tipica delle donne polacche, che assomigliavano nella forma al dolce.
Nell’Ottocento, a Parigi, nacque un altro babà, Signore e signori, ‘o babba quello a forma di ciambella, inventato da Jean Anthelme Brillat-Savarin, senza uvetta ma con il burro e una spennellata di marmellata di albicocche, al cui interno veniva messa la macedonia.
Nel 1836 il babà appare nei primi manuali di cucina, come dolce tipico napoletano, arrivato grazie ai cuochi francesi al servizio delle famiglie nobili partenopee, i monsù.
Verso fine secolo, il babà divenne il dolce borghese da passeggio della Napoli bene.
Questo è un dolce che vuol vedere la persona in viso, cioè per riuscir bene richiede pazienza ed attenzione” scriveva l’Artusi. Il suo impasto è fatto con farina, burro, uova, latte,
zucchero e lievito lasciato a maturare per ore. Poi viene fatto cuocere nelle apposite forme finché non diventa dorato, fatto raffreddare e, infine, immerso nello sciroppo con il rum.
La ricetta non è troppo complessa ma la perfezione sta nell’ottenere una pasta ben alveolata, soffice e spugnosa. Più di ogni altra cosa, però, il babà deve essere bagnato al punto giusto. Un buon babà “torna su”.
Le varianti sono moltissime, da quella con panna fresca e fragoline, a quella con il gelato, con la crema, serviti nel bicchiere o in vasocottura.
A Napoli, il babà è sacro. Caffè e babà. Pizza e babà. Evoca i viaggi in macchina della domenica, i cabaret di paste per il pranzo, gli amici, la famiglia.
Ma per quanto nelle pasticcerie si vedano versioni spettacolarmente lussuose, i napoletani elogiano specialmente quello classico.

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