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CUCINE DA COVID – 19. Dalle ceneri della ristorazione tradizionale alla Dark Kitchen

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A cura di Marco Furmenti

Difficile a dirsi, ma gli studi a riguardo non sono confortanti… Vero anche che per cambiare le abitudini di un popolo occorrono anni, ma è anche palese che l’avvento della tecnologia e gli stati di emergenza velocizzano i cambiamenti sociali e comportamentali di una società.
Solo il tempo risponderà ai quesiti di questo settore… Apro, non apro, fino alle 18, solo asporto, asporto e domicilio… o magari sto chiuso. L’argomento è stato toccato tante, troppe volte, ma se fare il ristoratore è sempre stato un mestiere difficile, ora lo è più che mai.
Con la fine di gennaio abbiamo toccato quasi i dodici mesi di pandemia e questa guerra contro il Covid-19 non sembra avere fine! Intanto la ristorazione piange, si modifica e si evolve.
Se fino a qualche mese fa si cominciava a parlare di delivery dalla trattoria al ristorante stellato, un nuovo fenomeno si prospetta all’orizzonte: la Dark Kitchen.
Anche se il nome potrebbe ricordarlo, non c’entra nulla il proibizionismo, i locali con aperture fuorilegge e i retrobottega bui stipati di persone chini su piatti strabordanti di carbonara.
Con Dark kitchen si intende un nuovo modo di concepire la ristorazione in cui la cucina diventa puro luogo di creazione e realizzazione di piatti esclusivamente per il delivery.
Prendete il vostro locale preferito e togliete dall’equazione la location, la sala, il personale, l’atmosfera soft e otterrete il vostro piatto preferito direttamente a casa vostra. Massima
ottimizzazione delle risorse umane, delle energie e dei costi di gestione… praticamente una fabbrica perfetta per sfornare piatti in maniera espressa. E non è tutto!
La Dark Kitchen si è spesso rivelata il luogo ideale per permettere agli chef e alle loro creazioni di spostarsi per far assaporare la propria inventiva anche fuori dal paese nel quale si opera quotidianamente.
Al momento, questa appare come l’unica soluzione in grado di dare respiro ai ristoratori di mezzo mondo e in alcuni paesi è diventata all’ordine del giorno. Si tratta di una scelta obbligata? O stiamo andando verso un nuovo modo di concepire la ristorazione?
Il ristoratore è per antonomasia colui che porta ristoro e questo non gira sempre e solo attorno alla cucina. Sedersi ad un tavolo, sorseggiare un calice di vino, accompagnato da una fetta di pane e prosciutto, da una piatto di minestra o da un piatto di alta cucina, scambiare quattro chiacchiere col cameriere, godersi l’atmosfera… questo è ristorarsi.
Il piatto di per sé, molto spesso corrisponde a metà dell’esperienza e il prezzo che noi paghiamo a fine pasto comprende anche l’altra metà dell’esperienza, altrimenti diventa tutto un drive in insapore e senza sentimento. È oltremodo interessante pensare a cosa possa frullare nella testa di uno chef sapendo che gli ultimi stadi di preparazione del proprio piatto siano in mano a persone che potrebbero non aver mai cucinato un uovo sodo in via loro.

Forse per noi è facile visualizzare tutto ciò perché in Italia il concetto del cibo e della convivialità a tavola creano un connubio quasi indissolubile: difficile mettersi a tavola in un ristorante in piena solitudine…
Eppure questa è la via che stiamo percorrendo e chi vuole sopravvivere sta abbracciando questa nuova filosofia di lavoro. Quello che stiamo cercando di capire è se effettivamente, una volta finita questa crisi sanitaria, torneremo a riempire le sale ristorante, con qualche accorgimento in più o se la nostra mondanità rimarrà segregata in casa.
Il delivery sarà il futuro della ristorazione? La Dark kitchen sarà l’unico modo per evitare il collasso della ristorazione?
Torneremo mai ad una normalità di lavoro? La cucina come la conosciamo è morta, moribonda o si sta solo prendendo una pausa?

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