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Cibo, un peccato che fa gola.

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Un viaggio tra le culture del passato alla scoperta del vizio capitale più diffuso al mondo.

Cibo e peccato, un binomio perfetto.
Se guardassimo da una prospettiva dantesca la società odierna, il mondo della ristorazione tutto e i menu salati dell’Alta Cucina, non sarebbero altro che una costosa autostrada verso l’inferno, con uscita dritta nel girone dei golosi. Gli chef sarebbero dei demoni a custodia del “dolente loco”, e si farebbe a gara per guadagnarsi un po’ di spazio in quella fanghiglia maleodorante, imputridita da una pioggia battente e fastidiosa.

Delle stelle non si avrebbe nemmeno più il ricordo e certo queste non rischiarerebbero il girone infernale, che si riempirebbe di volta in volta di flotte di uomini e donne frequentatori di quelli che adesso sono i templi del cibo: critici detentori di un sapere considerato ormai superiore, giornalisti “gastronomofili”, blogger e influencer, per ciascuno dei quali il sommo Poeta avrebbe da inventarsi una pena del contrappasso ad hoc. E chissà quale sarebbe la penitenza per Adam Richman!

Il concetto di gola e peccato, o meglio di “gola è peccato”, è atavico e radicato nella nostra cultura contraddittoria e persino un po’ ipocrita. Soprattutto quando propone cibi spazzatura in ogni angolo delle strade e in ogni spazio comunicativo, salvo poi essere assente o carente nella presentazione di politiche serie di supporto e di aiuto alle
persone affette da obesità, da sempre relegate ai margini di una società che predica il culto del corpo e che ci vuole “fighi” a tutti i costi, anche se poi ci propina e ci bombarda di zuccheri e grassi. E questo forse proprio perché è insito nell’uomo il concetto che l’obesità non è una malattia ma una colpa…ma questa è un’altra storia.

Dicevamo il peccato…sì, agli albori della nascita della prima relazione sociale c’è proprio questo concetto che lega al cibo al peccato. Il riferimento, sia pure breve ad Adamo e alla mela, ci fa comprendere come il primo peccato della storia, ricordato per antonomasia, è biblico ed è proprio legato all’atto del mangiare.

Cibo sinonimo di conoscenza in quel caso, una conoscenza che ab origine è solo appannaggio divino. Ma la storia e la letteratura e anche l’arte, la cinematografia e la pubblicità, sono pieni di esempi di immagini e costruzioni in cui il cibo è legato a qualcosa di sbagliato, di peccaminoso, di diabolico quasi. Un retaggio che inevitabilmente ci riporta ai nostri più reconditi sensi di colpa, in quell’agire quotidiano che porta inevitabilmente alla scelta tra il bene e il male, alla possibilità di dominare il male o di soccombervi.
Che il cibo sia peccato per il cristianesimo è dato anche dalla scelta del digiuno, quindi dell’astinenza dal nutrimento, per espiare i peccati e per recuperare una versione di sé più pura e verginale.

E gli esempi in cui il cibo è legato a qualcosa di sbagliato si moltiplicano: nel vecchio testamento Esaù vende la sua primogenitura per un piatto di lenticchie, nella fiaba di Hansel e Grethel i due fratellini rischiano la vita proprio a causa della loro ghiottoneria e stessa cosa accade nella Fabbrica di Cioccolato. E che dire di Chocolat, il film in cui la Binoche recita la parte di una moderna strega ammaliatrice, dove al posto delle pozioni ci sono dei golosi manicaretti al cacao?

Le storie cinematografiche, i racconti fiabeschi e la letteratura ci dimostrano come attorno al cibo ruoti una accezione culturale molto forte, spesso accompagnata da convinzioni e rituali ben precise, in grado di segnare fortemente l’identità di un territorio, spesso addirittura la sua dimensione spirituale.
Il pianeta è pieno di proibizioni alimentari, in cui al cibo è legata una determinata concezione.
Nella spiritualità cristiana, ad esempio, al periodo di digiuno è legato il valore redentore della purificazione e dell’espiazione. Ai cristiani è proibito mangiare carne e insaccati nei venerdì di Quaresima ed è previsto il digiuno il Mercoledì delle Ceneri e il Venerdì Santo, oltre un generico richiamo alla sobrietà e a non abbandonarsi ai peccati di gola, mentre la Chiesa ortodossa etiopica (Tewahedo) proibisce la carne di maiale.

L’Induismo proibisce di uccidere l’animale sacro per eccellenza, la mucca, e nelle caste alte il cibo deve essere cotto dalla famiglia o da qualcuno che appartenga allo stesso livello castale. Il Buddismo non vieta espressamente la carne, ma considera il vegetarianesimo una pratica positiva. Per l’Islam è peccato mangiare il maiale, ma anche gli animali carnivori e gli uccelli predatori, così come i rettili e gli insetti, ad eccezione delle locuste.

Se in Occidente non è pensabile mangiare cani, questo animale viene mangiato senza particolari problemi in Corea, Vietnam e Cina. Nell’ebraismo, poi, i concetti di “contaminazione” e “purezza” sono alla base della cucina Kosher. E che dire del concetto di peccato legato al cibo nel marketing? Voluttuose campagne pubblicitarie, ammiccanti ragazze e modelli in adamitici costumi affiancati a prodotti alimentari nelle pose più peccaminose. A ricordare che forse quello del “mangiare” è il peccato più bello che si possa commettere. E chi ne è immune, scagli pure la sua pietra!

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