Appena diciassettenne lascia il suo paese sui monti abruzzesi per andare a scoprire quel mondo che tanto lo incuriosisce. Lavorando sodo, con tanta umiltà ma soprattutto con la bramosia negli occhi di imparare tutto, conquista la fiducia di grandi chef, entrando così nelle migliori cucine italiane stellate e non, carpendone ogni dettaglio, ogni sfaccettatura, ogni segreto. Oggi Antonio Zaccardi, chef del ristorante Pashà di Conversano, si sfida nel proporre un territorio, che conosce bene anche grazie alla sua compagna di vita e di lavoro Angelica, ricchissimo d’ingredienti semplici ma particolari trasformando una cucina tipica tradizionale in un menù di piatti più audaci e contemporanei. All’ombra di un castello del ‘600, negli spazi del Seminario Vescovile, Antonio, chef visionario, creativo e istintivo, celebra con maestria, gesti e sapori di un territorio votato alla biodiversità e alla tradizione artigiana.
Com’è iniziato il tuo percorso?
Avevo solo diciassette anni e prima ancora di finire la scuola sono scappato via dall’Abruzzo. Volevo lasciare il paese dove ero cresciuto e andare a vedere il mondo spinto dalla mia insaziabile curiosità: avevo voglia di nuove avventure. La curiosità è sempre stata il mio forte e mi ha sempre spinto a viaggiare ed esplorare. Vivere in un paese di montagna con 2000 abitanti a 1200 metri significa essere isolato dal mondo. All’epoca non c’erano neppure i social (ride)! Sono partito per Torino e ho iniziato a muovere lì i primi passi in un ristorante.
Dov’è nata poi la passione per la cucina?
Sono sempre stato affascinato dai lavori manuali in genere e poi vengo da una famiglia umile. É una passione che è nata piano piano con l’esperienza, spinta dalla mia innata curiosità. Ho avuto la fortuna di fare diversi stage in cucine europee e ho incontrato chef conosciuti in tutto il mondo, professionisti che mi hanno fatto appassionare a questo lavoro.
Come sei arrivato alle cucine stellate?
Iniziai a comprare libri e riviste come il Grand Gourmet e la Cucina Italiana, di cui ho ancora oggi tutta la collezione (ride) e a incuriosirmi ai vari chef dell’epoca. Dopo alcune stagioni in ristoranti di cucina tradizionale, vidi su una rivista Luca Verdolino gli mandai il curriculum e mi trasferii a Bolzano nell’hotel dove lavorava lui. Lì iniziai a cogliere il bello di fare questo lavoro perché eravamo una brigata di 15 persone e si lavorava già con una grandissima impostazione e rigore. Incontrai Angelica, che è diventata mia moglie, e da qui iniziai ad avvicinarmi al mondo delle stelle.
Sei più artista o più chef?
Mi piace l’arte e molto l’istinto personale perché ognuno di noi ha una sua visione. Mi piace molto il gesto artistico ma mi sento un cuoco che cerca di fare bene il suo lavoro. M’incuriosisce ancora tanto vedere lavorare le persone e ho ancora tanta voglia di imparare.
Come sei approdato alla cucina di Cracco e cosa hai imparato?
Io ed Angelica abbiamo sempre cercato di spostarci insieme nei ristoranti lei come pasticcera, io come cuoco e poi, finito il periodo nel ristorante stellato di Pierino Penati in Brianza, mandammo il curriculum a Cracco. Dopo una settimana ci telefonò alle 11,30 di sera per incontrarci il lunedì dopo a Milano. Facemmo il colloquio e ci prese entrambi e per me fu il trampolino di lancio. Quell’esperienza mi fece capire la differenza che c’è in questo lavoro. Fino a quel momento avevo solo compreso che in cucina poteva esserci lo chef più o meno bravo, ma da Cracco capii che oltre quello c’era il genio, la creatività, lo studio, l’eleganza tutto quello che dentro di me volevo e cercavo già da tempo. Inoltre la cucina era strepitosa, un ambiente che non avevo ancora visto fino a quel momento: ero scioccato! C’era rigore, serietà e quindi da lì è partita proprio la passione quella vera per la cucina. Mi ha insegnato tutto questo oltre al gusto, all’eleganza e alla tecnica.
Cosa pensi che lo abbia colpito di te per assumerti?
La mia umiltà sicuramente. Inoltre lui ha questo grande dono di capire le persone e quello che gli possono dare. Io ero talmente umile, con tanta voglia di fare e imparare. Erano gli anni più belli di Cracco e quindi ho imparato tanto: una grandissima esperienza che mi ha aperto molte porte dopo.
Qual è la tua idea di cucina oggi dopo tutte queste esperienze?
La semplicità nell’eleganza. Mi piace tutto ma quello che mi stupisce adesso nel piatto è la semplicità che se presentata nel modo giusto, nella forma giusta, nel colore giusto diventa strepitosa.
Com’è stata l’esperienza con Enrico Crippa?
Sono stati 12 anni fantastici. Con lui avevo un rapporto del tutto naturale per cui ci siamo allineati perfettamente da subito. Non parlavamo mai ma ci capivamo al volo. Mi ricordo tutti i passaggi di ogni singolo piatto, nato mentre facevamo le preparazioni alla mattina. Non ci siamo mai seduti a tavolino a discutere di un piatto. Ho cercato di carpire da lui tutto quello che potevo imparare: il gesto, e lui ne ha tanti, e il gusto.
Poi ho sentito la necessità di fare nuove esperienze e quindi di mettermi in gioco per una nuova avventura.
Com’è nata l’opportunità del Pashà?
Ero in Puglia e sono stato invitato da un amico che mi portò a cena al Pashà che fino ad allora conoscevo solo di fama. Restai colpito dalla bellezza del locale e conobbi Antonello Magistà, il proprietario. Dopo diversi mesi ci siamo risentiti e abbiamo iniziato questa nuova avventura insieme. All’inizio è stato molto faticoso, una sfida enorme: ho dovuto lottare su tanti aspetti e soprattutto gestire il mio carattere in un ambiente familiare. Però sapevo che associare la mia cucina alla bravura di Antonello sarebbe stato vincente. E a oggi è così e ce lo dimostrano i clienti, che ritornano e ci fanno i complimenti.
Come crei i tuoi piatti?
La mia cucina è semplice nella complessità dell’equilibrio degli ingredienti. Si basa sul territorio con gusti molto leggibili, con forme e colori. Ho sempre girato molto nelle cucine tradizionali per carpire i gusti del territorio e rielaborarli in una maniera elegante e personale. Mi piace che il cliente resti colpito nel percepire nel mio piatto la memoria dei sapori della sua infanzia ma in chiave molto raffinata. Questa è la chiave vincente di un territorio di cui il cuoco si deve fare ambasciatore.
Ci racconti “uovo rotto”?
Uovo rotto è nato nel periodo del lockdown in collaborazione con il team dei ragazzi che mi curano la comunicazione, per fare qualcosa di creativo in quel periodo difficile. Nasce per l’dea dell’Italia e del Mondo rotto per cercare di rimetterla insieme in maniera positiva affinché diventi più forte e più bella di prima. Mi sono ispirato alla tecnica giapponese kintsugi, con cui si assembrano i pezzi rotti della ceramica.
Il tuo dolce preferito tra quelli preparati da Angelica e il piatto che lei preferisce tra quelli che prepari tu.
Io adoro la panna cotta e lei è molto brava a farla. Qui fa una versione con una panna ridotta acida e con succo di teste di gamberi affettate sopra: il gambero funge da fragola perché la testa è dolciastra e con il limone diventa un’accoppiata vincente. Lo utilizziamo come pre-dessert. Invece Angelica ama il riso marinara al gusto pizza, che racchiude il mio percorso professionale. Ho voluto creare un piatto che unisse gli ingredienti del nord a quelli del sud: quindi un classico riso al pomodoro con acciuga, origano, Parmiggiano, aglio e burro con una spolverata di croste di pane d’Altamura, che con ili calore del riso sprigionano i profumi di una pizza.
Qual è stata la tua chiave di vittoria in questo lavoro?
Intanto sono stato molto fortunato a incontrare persone che mi hanno insegnato molto e mi hanno permesso di girare nelle varie cucine e conoscere chef importanti. La mia determinazione e il fatto di essere testardo hanno fatto il resto!