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Alberto Gipponi. I contenuti, la tecnica e la filosofia del gusto.

Dina, il nome della nonna, un nome dalle note retrò, ma allo stesso tempo contemporaneo, elegante e informale. Il nome giusto per una nonna, per una bambina, per un luogo di casa, ma anche sofisticato. Dina è il sogno diventato realtà, il ristorante di Alberto Gipponi, aperto il 17 Novembre 2017 in Via Santa Croce a Gussago, in Franciacorta. Dina è un luogo di energia in cui le storie di ognuno si intrecciano.
Una volta varcata la sua soglia, Dina diventa parte della storia di ognuno. Noi siamo onorati di poter vivere parte della vita degli ospiti e ci auguriamo che un po’ di Dina li possa seguire”.

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Come sei arrivato dalla sociologia alla cucina?
È la mia grande passione. Ero insoddisfatto di me stesso, avevo una vita apparentemente perfetta, però mi mancava qualcosa. Quel qualcosa era che ero un cuoco da tutta la vita, però l’ho scoperto un po’ più tardi di altri.

Un’esperienza a Orsone in Friuli, poi da Nadia in provincia di Brescia, quindi un excursus all’Osteria Francescana e poi Alberto Gipponi, bresciano doc, classe 1980, detto “Il Gippo” dagli amici, il 17 Novembre 2017, come detto, apre Dina. Un’escalation veloce la sua, la prima esperienza, difatti, risale al 2015, solo due anni prima.

“Anche quando non ero ancora cuoco avevo un rapporto con il cibo fortissimo, quasi patologico. Ho girato mangiando con attenzione per tutta la vita e questo mi ha aiutato moltissimo. Il palato è qualcosa di essenziale per chi fa il nostro lavoro. Inoltre, in una fase della mia vita ho provato a fare il chitarrista, ma sono un chitarrista mediocre, la tecnica non mi ha assistito, invece con la cucina è tutto diverso. Diciamo che so sempre suonare”.

Il “Gippo” fa la sua storia che racconta nei suoi piatti. “Quando hai una certa età devi assolutamente dare priorità ai tuoi gesti, devi capire e ponderare profondamente tutto. Ho amato i miei errori più dei miei respiri, ho provato ad essere il miglior maestro di me stesso e a differenza di quello che succedeva con la chitarra sono riuscito a correggermi. Diciamo che ho avuto la fortuna di riuscire ad imparare alla svelta anche se è solo l’inizio. La meraviglia della cucina è che non c’è fine a quanto si possa imparare, conoscere, sperimentare e immaginare. L’amore per le persone e il fatto di poter sempre affrontare nuove conoscenze per me vale tutto. Dina ha avuto una crescita importante dall’interno, chi ha avuto la sensibilità di capire fin dall’inizio la sua essenza ci ha fin da subito elogiati. I gastro-giornalisti, forse, subito ci hanno persino dato troppo. L’impressione era: “cavolo che figata”, una novità che però ha fatto storcere il naso a tanti che lavoravano nel settore da venti o trent’anni. Onestamente, li capisco. Questo è un lavoro che ti da molto, ma ti ruba tutto.
È un lavoro dove ci sono davvero troppe compravendite sottobanco. E, per quanto mi riguarda, ho cercato di stare lontano dal discorso della comunicazione. Quasi nessuno ci crede, ma la prima volta che ho parlato di me in prima persona è stata pochi mesi fa in un articolo di Anna Prandoni, questa credo sia la seconda o, comunque, siamo sul podio. Penso sia arrivato il momento. È giusto che Dina e io con lei ci si faccia conoscere per come siamo. Nelle ultime due settimane due colleghi che sono venuti a trovarmi e mi hanno detto “ma sai che non si capisce davvero ciò che sei. Che ami così tanto le persone, che quello che fai lo fai per gli altri e che il livello di tutto è così alto” (Stefano Giordani de La Speranzina) e “cavolo, da fuori sembra tutto così frou frou e invece sei proprio VERO!” (Giorgio Damini di Damini Macelleria e Affini). Insomma, è ora che non siano più solo gli altri a raccontare tutto ciò che nasce qui.

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Oggi, sempre di più il valore sta crescendo nella tecnica, nel gusto, negli equilibri e nella semplificazione. Spero presto di iniziare davvero a raccontare ciò che sta nascendo giorno dopo giorno qui da Dina: un luogo con sempre più possibilità di accogliere ogni tipologia di ospite. Fino a circa un anno fa non era un ristorante, era un luogo dove si raccontava una storia, una storia di energie, anche di imperfezioni con delle intensità difficili da cogliere, anche scomposte e faticose a volte. Chi ha vissuto quella “Dina” forse ne ha nostalgia, ma come nelle storie d’amore non tornerà. E’ come quando stai con una persona: all’inizio fai l’amore in tutti gli angoli, hai le farfalle nello stomaco e non sai come comportarti, forse imperfetto, ma da lasciarti senza fiato. Poi però l’innamoramento diventa amore, magari ti sposi e fai dei figli e le cose cambiano. Dina è sempre più matura e soprattutto staccata dal “Gippo”, almeno un po’. Tutte le tematiche che sto portando avanti sul movimento italiano, sulla tecnica applicata al gusto, sull’idea di bello che si sposta, sullo stile di servizio, su contenuti che siano riproducibili, sulla codifica dell’errore so che prenderanno valore e verità tra un po’ di tempo, ma non necessariamente vengono raccontati a chi si siede alla nostra tavola. Si può “semplicemente” mangiare oppure approfondire i contenuti e la storia di quanto stiamo costruendo.

Definiresti quindi Dina un laboratorio?
Dina è tante cose, prima di tutto, oggi, Dina è un ristorante che fa accoglienza che sta lavorando molto sul tema del “su misura”. Se vieni da me e ho la stoffa e vuoi un vestito in raso anche se la mia idea era di farlo in seta te lo faccio in raso con piacere, con la mia mano ovviamente, ma te lo faccio. Quando ho aperto Dina era tutto più verticale, c’era una parte di Gipponi di un’ingombranza asfissiante o inebriante a seconda di come la guardavi, oggi, come detto, è tutto più misurato. Io sono in cucina ed esco solo alla fine del servizio e “le storie di Dina” te le racconto solo se davvero hai voglia di ascoltare. Sono abbastanza convinto che, oggi, Dina sia un ristorante che mette davanti ad ogni cosa l’accoglienza delle persone che ogni giorno la rendono viva. Tuttavia, anche la tecnica legata al gusto e le percezioni del bello e del buono rapiscono parte delle nostre giornate senza escludere l’ovvio lavoro sulla materia prima che portiamo avanti anche grazie a Nicolò Scaglione. Poi, ancora rimane un po’ di gioco anche se sempre meno. Ad esempio, ti do un’anteprima: a Settembre, ci sarà lo spaghetto alla carbonara con la panna montata. Sai che pare essere un’eresia fare la carbonara con la panna (Marchesi la faceva proprio così), noi invece abbiamo pensato direttamente di farla con la panna montata, esageriamo. Questi comunque, come detto, sono giochi, invece a me piace parlare di contenuti, di estetica e di filosofia del gusto, questi sono gli aspetti che mi interessano davvero, ma ci sono delle tematiche di ricerca che ancora non possono
essere espresse. Per Dina è ancora un po’ presto. Pare.

Come definiresti la tua cucina?
La risposta è lapidaria: onesta.

Che esperienza deve aspettarsi chi assaggia la cucina del “Gippo”?
Sicuramente un’avventura che dà tante opzioni di scelta. Abbiamo quattro menu degustazione, tuttavia si può fare pure una scelta personale. C’è un menu più breve con piatti molto accoglienti, uno che comprende quelli che sono diventati alcuni “classici” di Dina, c’è il menù un po’ più “disruptive”, fino a quello in cui ognuno può costruirsi il percorso, diciamo una sorta di carta. Stiamo lavorando tanto sui dolci, io che facevo dei dolci fondamentalmente salati, cioè dolci non dolci, ora sto lavorando anche molto sui dolci tradizionali. Ho appena preparato il nuovo dolce 8 portate: una crostata che sembra cruda, ma è cotta esattamente come il Casoncello crudo ma cotto. Mi piace lavorare su questi ossimori e contrasti. Sto lavorando in profondità sui contenuti della tradizione e allo stesso tempo provo a offrire un po’ di potenziale per il domani.

Qual è il tuo rapporto con il territorio?
Quello con Brescia è un legame di grande amore da parte mia. Abbiamo avuto non poche difficoltà all’inizio con i miei concittadini come ospiti, ma oggi le cose stanno migliorando sempre più e spero che Brescia percepisca, viva e condivida il valore di Dina. Mi sto adoperando molto per abbracciare forte la mia città facendomi conoscere per quello che sono io e che Dina è con me.

Il tuo ingrediente preferito?
Ne ho talmente tanti in testa che l’unica risposta a cui penso è: quello che non ho ancora provato o utilizzato.

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Il piatto iconico di Dina?
Siamo partiti con il Casoncello crudo ma cotto e quello lo porteremo con noi per sempre. Ci sono, poi, tanti piatti che non posso togliere perchè continuano a chiedermeli ma, forse, anche in questo caso, ti risponderei, mi auguro il prossimo.

Come hai vissuto il periodo del lockdown in una città così colpita come Brescia?
Io abito a 300 metri in linea d’aria dall’Ospedale civile di Brescia quindi è stato un susseguirsi di emozioni. C’è stata una prima fase quasi di rabbia e di fatica perchè capivo che tanti non coglievano la gravità della situazione, sono mancati i genitori di moltissimi amici, ho avuto amici ammalati. Fin dai primi giorni avevo provato a sentire alcuni colleghi invitandoli a chiudere per dare l’esempio dato che erano più noti di me. Io forse facilitato dal luogo in cui vivo ho colto subito molto chiaramente dove stavamo andando. Dopo una prima fase di paura, di fatica, di tristezza ho cercato di trasformare quel periodo difficile cercando di guardare il bicchiere mezzo pieno e alla fine, pur nella tragicità, si è trasformato un tempo molto proficuo. Ho studiato, riflettuto, riprogrammato e vissuto momenti che non avrei potuto vivere. Ho vissuto, come tutti, soprattutto la famiglia. Quei mesi di stop mi hanno dato l’occasione di capire meglio chi voglio essere e cosa voglio fare. Dina in questo lockdown ha perso tre mesi e guadagnato un anno e mezzo. Ne sono convinto.

Le tue creazioni partono dall’ingrediente o da un’idea ben precisa che hai in testa?
Una volta era proprio la vita ad ispirarmi, cioè vedevo cadere una foglia e mi illuminavo, oggi sono molto più incentrato sul contenuto di lavoro tecnico e di prodotto. Sono molto più essenziale su quello che è la materia prima e mi piace raccontare quella, è quella l’esperienza che voglio far vivere al tavolo. Domani vedremo.

Quali sono le prospettive e il futuro di Dina?
Ho sempre avuto le idee chiare su ciò che sarebbe stata Dina. Continua ad essere così, ma porto con me anche una citazione di Eduardo Galeano e parafrasandola dico che se tu guardi l‘orizzonte a ogni passo esso cambia, quindi sono certo che anche il futuro di Dina sia così, un continuo divenire visto che, in fondo, “tutto ci passa attraverso e ci cambia”. Oggi preferisco far uscire Dina e poi Alberto Gipponi. I luoghi non vivono senza le persone che li rendono tali. Io non sono un cuoco che fa da mangiare per se stesso. La prospettiva è sicuramente sostenere Dina e chi con lei lavora ogni giorno per rendere belli i momenti preziosi delle persone che intrecciano le loro storie con noi. Poi, sicuramente, come accennato, sostenibilità sociale, tecnica applicata al gusto, nuove visioni di accoglienza e di estetica fanno parte di un disegno nella mia testa, nel mio cuore, nel mio palato e nelle mie mani, ma questa è un’altra storia, magari, ve la racconterò un’altra volta.

Ph. Credits: Lido Vannucchi

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