a cura di Carmela Loragno e Valentina Pellegrino
Sarà perchè è il pronipote di Evaristo Mauri, uno dei primi fotografi italiani o perché la fotografia l’ha sempre respirata fin da bambino, quando suo padre scattava e stampava con gli amici, mentre in casa non mancavano apparecchi e riviste del settore, come Progresso Fotografico o libri e album di ogni sorta: scatole di ricordi che all’occorrenza si aprivano per far venir fuori storie, vissuti, persone e personaggi di racconti veri e fantastici, suggestioni poetiche che solo la fotografia sa evocare.
Fatto sta che da allora, da quegli anni segnanti per un bambino, Adriano Mauri ha capito quale sarebbe stata la sua strada: la fotografia. Un sacro fuoco che ha coltivato negli anni e che dalla lontana Iglesias, terra natia, lo ha portato prima a Roma, poi a Cagliari e infine a Milano, passando per una serie di innumerevoli viaggi, perché la fotografia ti “condanna” inevitabilmente al nomadismo professionale, soprattutto alla ricerca incessante di nuove prospettive da cogliere e catturare.
Uno stile narrativo, intimistico, profondo: negli scatti di Adriano Mauri c’è tutta la sua formazione arricchita di letture e musica, ma anche di famiglia e ricordi importanti. Figlio di terra di miniera, cresciuto tra mattoni, pozzi e architetture di ferro, mani e volti segnati dal duro lavoro, non mancano nei suoi progetti le facce e le anime delle persone incontrate lungo la strada.
Un approccio poetico e documentaristico che lo contraddistingue, tanto da definire il suo modo di fare fotografia quasi femminile, per la sensibilità spiccata, la capacità di fermare e imprigionare l’attimo nel momento di sua maggiore espressione, in quell’afflato artistico
che è l’anima delle cose.
Anche la food photography, a cui oggi il professionista si dedica, dimostra tutto questo. Cibi che si rivelano nella loro complessa bellezza, frutto di sapienti mani e menti che li hanno plasmati. E poi i protagonisti, gli chef, colti nei loro momenti più autentici perché
il food è, prima di tutto, chi ci sta dietro, chi con il suo studio, la sensibilità, la voglia di sperimentare e di osare, ha cambiato il destino stesso di un settore, elevandolo a vera e propria arte.
E allora si comprende come la fotografia del cibo sia, con gli scatti di Adriano, un’arte nell’arte, obiettivi sensibili di luce e di storie, attimi rubati alla bellezza, perfezione che si
dipana in fotogrammi, tecnica raccontata con accostamenti e miscugli di colori.
Il cibo prende sfumature diverse, i piatti raccontano le mani che li hanno composti, l’ostentazione diventa storia, la materia prende un’anima!
Da cosa nasce la passione per la Food Photography?
Principalmente dal fatto che adoro il buon cibo e mi piace cucinare, anche da prima di iniziare a fotografare da ragazzino.
Inoltre lo still life è la specializzazione che più mi coinvolge emotivamente, è dal punto di vista creativo, un tipo di fotografia cosiddetta “lenta”, dove la cura del dettaglio, la composizione e la luce devono essere governate con cura e attenzione, anche se io sono per natura istintivo e adrenalinico. Così la fotografia di still life è per me una sorta di mantra, ho imparato ad essere disciplinato con me stesso.
Da fotografo professionista, cosa pensi del fenomeno del food sui social? Possiamo considerarla una forma d’arte o una moda compulsiva di condivisione?
Già ho difficoltà a considerare la fotografia una forma d’arte… Credo che sia assolutamente una moda compulsiva in cui spesso, a meno che a pubblicare non siano professionisti, la qualità stessa delle immagini è scarsa. Io non fotografo mai il cibo al ristorante, forse perchè ho la fortuna di farlo per mestiere, ma il momento del pasto per me è sacro e anche molto intimo, godo con gli occhi, con l’olfatto e con il gusto, scattare con lo smartphone distrae e allontana dall’esperienza nel suo complesso, motivo per cui anche mentre scatto sul set, raramente assaggio ciò che fotografo, aspetto la fine dello shooting per godere di quello che ho immortalato.
Qual è secondo la tua esperienza il cibo più “fotogenico” per creare uno scatto a regola di Food Photography?
Credo sia necessario fare dei distinguo; la fotografia di “food”, a me piace dire di cibo, vive su due campi contrapposti. Uno è quello più strettamente pubblicitario, dove il cibo spesso è finto e ha un linguaggio e una realizzazione tecnica di un certo tipo. L’atro è invece quello in cui il cibo è reale, cucinato da un cuoco e commestibile, e si presenta così come se fossimo pronti a mangiarlo, ed è l’ambito che preferisco e di cui mi occupo di più professionalmente. Detto ciò, si potrebbe pensare che più fotogeniche siano le meravigliose creazioni degli chef; per me però il massimo della “fotogenia” lo hanno i prodotti che poi andranno a finire nei piatti dei grandi chef, soprattutto le verdure. Il mio amore per la pittura di natura morta fiamminga e italiana del 1500/600, d’altra parte, lo testimonia. Quella pittura è il mio costante riferimento creativo.
Hai lavorato con molti chef. Ti va di condividere un aneddoto curioso con i nostri lettori?
Quando realizzavamo le fotografie per il nuovo libro del Luogo di Aimo e Nadia con Alessando Negrini e Fabio Pisani, non riuscivamo mai ad essere soddisfatti di uno dei loro dessert iconici, il Tiramisud. Lo abbiamo fotografato cambiando impiattato fino a otto volte. È stato un lavoro di squadra magnifico e ci siamo anche divertiti parecchio per arrivare al risultato sperato.
Per chi è alle prime armi e vuole cimentarsi con la Food Photography, quali sono alcuni consigli tecnici per fare foto professionali anche in casa?
Una buona macchina fotografica con un ottica fissa da 60/85 mm, un treppiede (fondamentale), una finestra da cui entra una bella luce diffusa, che deve essere schermata con una tenda sottile, attraverso la quale ammorbidire la luce, dei pannelli riflettenti, un bel piano di appoggio neutro e, per finire, posizionare il set sempre contro la finestra, fronte laterale o laterale ma mai spalle alla luce. Ah ovviamente dei bei soggetti da fotografare ovviamente. Buon lavoro.