Ci sono storie che si intrecciano con i sapori, percorsi che attraversano epoche e culture, trasformando la cucina in un linguaggio universale. Chef Matteo Lorenzini ha fatto
proprio questo: unire l’eleganza della grande tradizione francese con le radici profonde della Toscana. Alla guida dell’Osteria di Passignano, porta avanti una visione culinaria che rispetta il passato ma guarda al futuro con creatività e rigore.
Dalle cucine stellate di Alain Ducasse alle colline del Chianti, il suo percorso è un intreccio di tradizione e innovazione, dove la sostenibilità e il rispetto per la natura diventano ingredienti fondamentali. Con un orto bioattivo a pochi passi dalla cucina e una passione per la storia gastronomica, Lorenzini non solo crea piatti, ma costruisce ponti tra passato e presente, tra arte e artigianato.
In questa intervista, lo chef ci svela i segreti del suo successo, le sfide di guidare un’istituzione come l’Osteria di Passignano e la sua visione di una cucina che sia non solo buona, ma anche memorabile, dove ogni piatto è un viaggio, un’esperienza, una storia da raccontare.
La tua carriera ti ha portato a lavorare in alcuni dei ristoranti più prestigiosi del mondo, come quelli di Ducasse. Quali sono le lezioni più importanti che hai appreso in Francia e come le applichi oggi all’Osteria di Passignano?
La Francia, a mio parere, in determinate Maison, insegna una coscienza professionale radicata in secoli di storia e cultura. Il signor Ducasse e altri chef sono ambasciatori
di un amore verso la gastronomia che va oltre il semplice fare ristorazione. Cerco di trasmettere questi valori alla brigata dell’Osteria, affinché possano trovare la loro strada imparando con dedizione e passione.
Essere menzionato nel libro di Alain Ducasse, “Une vie de goûts et de passions”, è un riconoscimento straordinario. Cosa significa per te questa citazione e come ha influenzato la tua filosofia culinaria?
Essere nei ringraziamenti di quell’autobiografia è forse il riconoscimento più prestigioso che abbia mai ricevuto. È stato un attestato di stima che mi ha confermato di aver assimilato valori importanti, interpretandoli senza tradirne l’intervista i principi: rispetto delle stagioni, dell’ambiente e della stagionalità dei prodotti. Le verdure, per esempio, sono per me un pilastro della cucina.
Il tuo percorso ti ha riportato in Toscana nel 2021. Quali emozioni e sfide hai incontrato nel guidare un’istituzione come l’Osteria di Passignano?
Dopo più di dieci anni all’estero, il richiamo della mia terra è diventato forte. Grazie alla famiglia Antinori e al management, ho potuto esprimere una visione gastronomica in linea con la storia e l’identità del ristorante. Immerso tra vigne e storia, il nostro obiettivo è proporre una cucina che sia leggibile e compatibile con il territorio, senza stravolgere l’ottimo lavoro di chi mi ha preceduto.
La tua cucina è caratterizzata da un profondo legame con la natura e la stagionalità. Come l’Orto Bioattivo di Badia contribuisce alla tua visione culinaria?
L’orto è un’eredità preziosa. Oggi è di moda, ma più di dieci anni fa era una rarità. Se si possono trovare prodotti di lusso ovunque, la vera esclusività oggi sono le verdure incontaminate. Il lusso, per me, è poter servire un ortaggio raccolto pochi minuti prima.
I tuoi studi sulla gastronomia medievale e l’antropologia del cibo sono affascinanti. In che modo questi influiscono sulle tue creazioni e sull’esperienza che offri ai tuoi ospiti?
La storia della cucina è un racconto che si rinnova. Collaborando con studiosi ho capito come molte ricette abbiano origini sorprendenti. Integrare il passato nelle mie creazioni significa dare un significato più profondo ai piatti. Ma alla fine, tutto si riduce a una domanda: abbiamo regalato ai nostri ospiti un’esperienza gastronomica memorabile?
Hai un approccio innovativo alle materie vegetali. Qual è stato ilpiatto più sorprendente che hai creato utilizzando esclusivamente ortaggi?
Un piatto che mi rende particolarmente orgoglioso è il Civet di verdure e frutti con polenta cremosa. Ho reinterpretato la salsa Civet, eliminando la carne e lavorando i vegetali con fermentazioni e cotture differenti. Per ottenere la profondità di sapore del Civet tradizionale, ho sostituito il sangue con un estratto di rape rosse e tamarindo. È un piatto esclusivamente vegetale, ma con un carattere deciso e sorprendente.
In che modo il Chianti e la tradizione toscana si intrecciano con le tecniche che hai appreso nei tuoi anni all’estero?
La cucina è fatta di influenze che si incrociano nei secoli. Ho scoperto, per esempio, che molte ricette che credevo francesi erano già presenti in Toscana nel Trecento. La memoria del gusto è fondamentale: reinterpretare un classico come la ribollita significa mantenerne l’anima, ma migliorarla con nuove tecniche.
La sostenibilità è al centro della tua cucina. Quali sono le prossime innovazioni che intendi introdurre per rafforzare questo aspetto?
La sostenibilità deve essere un percorso continuo. Valorizzare le verdure e ridurre l’uso di proteine animali è una scelta consapevole. Un altro aspetto che voglio riscoprire è il ruolo della sala: coinvolgere il personale nel servizio e nella finalizzazione dei piatti è un modo per arricchire l’esperienza del cliente.
Quali sono i tuoi obiettivi futuri per l’Osteria di Passignano?
Dopo quattro anni, il ristorante è in costante evoluzione. Il nostro obiettivo è migliorare giorno dopo giorno, offrendo un’esperienza sempre più coerente con la nostra filosofia. Se questo verrà riconosciuto dai clienti e dalle guide gastronomiche, ne saremo felici.
Hai spesso paragonato la cucina a una forma d’arte. Quali artisti o movimenti artistici ispirano le tue creazioni?
La cucina è un alto artigianato, più che arte pura. Ma esiste una componente creativa e performativa che la avvicina al mondo artistico. L’arte moderna ha ridefinito i confini della creatività, e anche noi cuochi, nel nostro piccolo, cerchiamo di lasciare un’impronta personale, reinterpretando sapori e tradizioni con il nostro tocco unico.