“Per la poesia la giovinezza non basta: la fanciullezza ci vuole!” scriveva Giovanni Pascoli. E dobbiamo “scomodare” proprio il poeta per comprendere il mondo Alajmo, dove l’attenzione al ruolo del gioco e della sorpresa, a cui solo da bambini sappiamo veramente abbandonarci ma dove ogni giorno aneliamo a tornare, ha un ruolo fondamentale.
Coinvolge tutti i sensi la cucina de Le Calandre; e se è facile farsi travolgere e lasciarsi andare a ricordi, emozioni e sensazioni che i piatti regalano, bisogna fermarsi un attimo per capire davvero cosa scatena la magia del “fanciullino”.
La penna che la racconta ovviamente non è di Pascoli, ma di Massimiliano Alajmo. Ed è proprio giocando a tornare bambini che inizia il nostro viaggio con lo chef che qualcuno ha definito “cuoco puro che rasenta (e spesso centra) il genio”, alla scoperta dell’essenza della cucina della famiglia Alajmo, la cui storia risale a quando nonno Vittorio allestiva il suo bancone di formaggi.
Parlaci del Massimiliano bambino, dei tuoi primi ricordi legati ai piatti di famiglia.
“Sono sempre stato molto legato al nonno e più passa il tempo, più sento forte questo legame. Le Calandre è lo stesso locale in cui un tempo da piccolo, coi miei fratelli, venivo a trovare i nonni. All’epoca si chiamava Aurora e da Ponte di Brenta, dove vivevamo e dove mio padre Erminio gestiva Le Padovanelle, un albergo molto all’avanguardia con un ristorante stellato, venivamo qui, e io non vedevo l’ora! I miei primi ricordi di piatti sono quelli che mangiavamo agli incontri di famiglia. La zuppa padovana: una zuppa di fagioli con del girello di manzo brasato, che prima veniva scottato con la paprica; e c’era della mela, della birra… Cubetti di manzo, intrisi di sapore, molto forti, tuffati in questa zuppa meravigliosa. Era un piatto di mio zio Giovanni, che in cucina ha sempre espresso doti geniali! Oppure i rigatoni alla campagnola; allora si usava molto la panna fresca, ma la vera particolarità di questo piatto è che contemplava molte verdure al suo interno, e poi c’erano i gambetti del prosciutto. Le parti più attaccate all’osso, al gambetto appunto, venivano tritate e poi scottate e a iunte alle verdure: carote, piselli e la zucchina che veniva fritta in olio e poi lasciata sedimentare nell’olio extravergine. Rimbalzava un colore verde smeraldo… insomma, era una pasta straordinaria!”.
Quando è avvenuto il tuo primissimo ingresso nelle cucine?
“Avevo circa cinque anni. Finita la scuola, il pomeriggio venivo qui in ristorante, dove sia mamma che papà a quel tempo lavoravano. I miei fratelli volevano stare fuori a giocare, invece io correvo in cucina con mamma Rita a fare biscotti. Mi ricordo un grande tavolo di marmo, con un forno dietro, la prima scottatura che mi fece capire che non era proprio tutto solo dolcezza! Mamma cercava di cacciarmi via ma poi si rassegnava, perché io volevo stare lì, vederla fare il pane e i dolci. C’erano dei vasi di vetro che venivano portati in sala, con dentro dei biscotti. Mio fratello ed io li rubavamo di nascosto… ne abbiamo mangiati a tonnellate! Ogni tanto chiedo a mia madre di farci uno di quei biscotti, ma non abbiamo ancora avuto il privilegio di riassaggiarli! Poi, poco a poco, divenni la mascotte in cucina: c’era quello che mi chiudeva in cella, quello che mi faceva saltare le crepes… e io sognavo di indossare i calzoni sale e pepe, proprio quelli che oggi ho iniziato a rindossare”.
Facciamo un salto temporale in avanti e veniamo a oggi. Raccontaci la cucina di Alajmo. “Non c’è verità se non quella contenuta negli ingredienti” ho letto…
“Abbiamo pubblicato due libri per noi molto importanti in cui abbiamo cercato di condensare la nostra idea di cucina: Ingredienti e Fluidità. Ingredienti parte dal concetto di ingredi: penetrare la materia, ascoltarla. La frase che hai citato è tratta da questo libro. Significa che ogni materia contiene una parte esteriore e una parte interiore. Come se la materia fosse il riflesso del macro nel micro, per cui all’interno puoi trovare tutti i riferimenti ai principi che muovono il mondo e l’esistenza. Trovi tutte le risposte che cerchi se osservi la materia, se analizzi quello che può essere il suo mutamento, la sua metamorfosi. Tutti i principi che noi applichiamo quotidianamente manifestano in qualche maniera verità evidenti, che però ci sfuggono. Se pensi alla semplicissima operazione della panificazione e vai a monte, come abbiamo fatto parlando di quando ero bambino, ecco, quando il pane era bambino era grano, prima ancora era seme, e ancora prima era terreno. C’è un processo trasformativo che porta il chicco di grano a diventare nutrimento, a diventare pane. Si impasta, si trasforma, subisce una fermentazione, e quindi una metamorfosi vera. È materia che diventa diversa da se stessa, alimentandosi della contaminazione legata all’acqua, che è l’elemento vitalizzante. Uno dei miei grandi maestri, Gianni Frasi, mi ha introdotto a queste riflessioni attraverso il caffè espresso, che è la suprema espressione del caffè. Il caffè espresso non è altro che un precipitato che in tazza si manifesta in due forme: una forma superiore e una forma inferiore. La forma superiore, che Gianni definiva la Gerusalemme celeste per i suoi riflessi dorati, è la crema, che ha 8-10 secondi di massima espressione aromatica. Ed è in quei pochi secondi che possiamo cogliere l’apoteosi di questo precipitato. La parte inferiore è invece la parte tenebrosa, la parte scura. Anche in questo caso se andiamo a monte, il chicco di caffè cosa è? Un osso verde che viene sottoposto prima a fermentazione e poi a quello che Gianni definiva il lava io col fuoco, ovvero la tostatura a fiamma viva. È in questo momento che l’osso subisce una vera metamorfosi: implode e sviluppa una serie di cariche aromatiche che prima non aveva, o comunque non erano percepibili. Infine, attraverso la bruciatura dell’acqua, con la macchina del caffè espresso, abbiamo un ulteriore cambio di stato e la sublimazione che si manifesta attraverso quel precipitato di cui tutti i giorni noi beviamo almeno una tazzina. Parlando ancora di parte interiore della materia poi, c’è un insegnamento importantissimo di Paracelso. Faccio spesso un esempio pratico. Prova a sfregare una foglia di menta tra le dita in maniera vigorosa. Se osservi la foglia, che all’inizio è verde, la vedi poco a poco imbrunire, fino a diventare flaccida e poi, se si lascia all’aria, diventa secca e sempre più marroncina fino a che si polverizza e si dissolve. Se ti guardi le mani non vedi nulla ma se le avvicini al naso percepisci l’essenza. Ecco, quella è la parte invisibile della materia. È un esercizio semplice ma intrigante che dà la misura della forza animante della materia, quella che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, che spesso però non consideriamo e quindi la limitiamo al consumo. La nostra è una società di consumatori: produciamo scorie e non produciamo relazioni. In realtà il cibo è molto di più, il cibo ha un lingua io meraviglioso, universale, non contiene soltanto
calorie o matematica ma ha ben altro: è un veicolo culturale ed emozionale, ricco di significati, di messa i. E se è ben utilizzato, può diventare uno strumento straordinario di relazione e anche di alimentazione in senso molto più lato”.
E Fluidità?
“È la sintesi di tre concetti: liquidità, profondità e leggerezza. Perché fluidità? Perché è fluire con la materia in un percorso che deve essere naturale. Proprio come l’acqua si muove libera, senza poter essere contenuta, andando dove deve andare, nel nostro intento gastronomico c’è quello di essere quasi spettatori della materia: ascoltarla e cercare di mettere in evidenza quello che la materia vuole raccontarci, senza cercare di essere noi i protagonisti. Quello che sostengo fermamente è che di base il cuoco, toccandola, non può che rovinare la materia! La materia è un’espressione massima compiuta e, nel momento in cui la tocchi, decidi di interrompere quella meravigliosa energia. Un po’ come il fotografo, che non può cogliere in maniera compiuta un’immagine ma può darne un punto di vista, in cucina siamo consapevoli che la materia contiene di per sé una bellezza di ordine superiore e noi possiamo solo fotografare alcuni elementi e cercare di renderli molto più visibili, accessibili, penetrabili. Come fossero degli ami per poter far immergere il nostro ospite in questo meraviglioso mondo”.
Hai parlato di linguaggio del cibo. Qual è il linguaggio della cucina Alajmo?
“Credo che esistano molti linguaggi nella cucina, molte possibilità interpretative. La cucina è introspettiva e tu puoi trovare in un piatto quello che cerchi, puoi viaggiare in base a quello che è il tuo campo emozionale, la tua storia, la tua memoria che io, che ho cucinato quel piatto, posso conoscere magari solo parzialmente, oppure posso intuire, intercettare, ma di certo non ho il tuo medesimo vissuto. Per cui c’è una misura introspettiva che fa parte di un linguaggio incerto. Nel senso che io posso fare una preparazione che ti stimola una reazione di memoria importante; nella mia intenzione c’era quello di regalarti un’emozione e ci sono riuscito, ma di certo non avrei mai capito di poter arrivare lì. Perché c’è una mediazione, una relazione che si crea tra chi prepara e chi riceve. Il primo più bel ristorante che tutti noi frequentiamo è il seno materno. E quel tipo di nutrimento è un nutrimento che ci portiamo dentro per tutta la vita. Ed è uno degli ambiti di ricerca che abbiamo fatto”.
Il cappuccino di seppie…
“Sì. Lo serviamo su una tovaglietta con la frase primo gusto, perché rimanda esattamente lì, al seno materno. È una sensazione lattico tattile palatale che inevitabilmente ti rimanda al tipo di sensazione che abbiamo avuto nella prima fase del nutrimento. Come poi ognuno la può interpretare? Se tutto è andato bene è un elemento di grande rassicurazione ed è peraltro l’elemento per il quale la cucina francese ha avuto un grande riscontro mondiale. Perché questa sensazione lattica è necessaria all’uomo. Perché l’uomo vuole rassicurazione; soprattutto nel momento del pasto abbiamo bisogno di ritrovare qualcosa che ci comunichi pace. Poi c’è chi coglie il trampolino per fare il salto successivo, per cui attraverso quel piatto vola in un’altra dimensione…”.
Questo è un esempio di scelta di linguaggio che avete fatto quindi?
“Esatto! E lo abbiamo fatto andando a giocare con questa sensazione, esplorando il mondo lattico e riportandolo nel piatto senza usare latticini, cercando la madre nell’ambiente vegetale, oppure nell’ambiente marino. E ancora di lingua io parlando, pensiamo a quante interazioni ci sono all’interno di un ambiente che possono coniugarsi con un piatto. L’umidità, la temperatura di una stanza, gli odori, i materiali con cui fruisco quella pietanza, le temperature di quei materiali, la porosità di una stoviglia, la perfezione o l’imperfezione della stoviglia, l’intensità della luce, una luce calda o fredda, una musica dolce oppure acida… Tutte queste cose interagiscono in maniera molto più definitiva di quello che possiamo immaginare, innescano dei meccanismi in degustazione subdoli. Non ce ne accorgiamo, eppure vanno a intensificare una sensazione o l’altra… Quindi ci sono una serie di linguaggi che intervengono e che vanno a contraddire l’idea che esista un linguaggio unico nella cucina. Non può esistere un linguaggio unico, perché esiste la relazione”.
A proposito di esplorazione del mondo lattico. Mozzarella di mandorle è un dolce che gioca su questo attraverso la mandorla. Non c’è latte… Ed ecco un altro concetto e linguaggio importante della vostra cucina, il gioco…
“Per noi il gioco è una cosa seria! Abbiamo sempre giocato tantissimo in cucina e con gli ospiti. Perché il gioco è la maniera più semplice, più leggera, per affrontare pensieri profondi, per far emergere quello che veramente è pulsante. La mozzarella di mandorle è un estratto concettuale importante di quello che è il nostro pensiero di cucina. Dal punto di vista olfattivo ha tutte le composizioni che ti rimandano veramente alla mozzarella, perché c’è una ricostruzione aromatica che gioca volutamente su quelle che sono le immagini, anche visive, di una mozzarella: l’origano, l’olio, il basilico, l’oliva… Tutte queste cose ti rimandano a un’immagine, a uno stereotipo gastronomico che hai registrato in testa. Nel momento in cui vai a toccarla, però, hai un elemento di rimbalzo: non c’è la morbidezza ma la croccantezza e nel momento in cui vedi che la mozzarella, si sgretola, ti fermi un attimo e hai il rimbalzo: il tuo sogno svanisce per lasciare spazio a un altro sogno. L’uomo ha bisogno di sognare, di alimentare lo spazio mentale con immagini in divenire che siano sempre ricche di speranza, di bellezza, di luce e di energia. La vita ci mette davanti a situazioni in cui necessariamente la reazione deve essere quella del rimbalzo. Ed ecco che allora nel gioco della mozzarella di mandorle c’è tantissimo di quella che è l’esistenza. È come quando scherzi con un amico e scherzando puoi far passare immagini e messaggi, in maniera leggera, frugale, sottile, che solo se ricevuti con quella leggerezza possono diventare energia straordinaria. Il gioco, insomma, è un ingrediente fondamentale per alimentare la bellezza ed è anche il modo per poter vedere le cose più tristi in maniera diversa. Ti permette di arrivare a quello spiraglio di luce che ti fa ribaltare tutto…”.
Che cosa è la verità in un piatto?
“Quella che tu hai dentro!”.
E quale è invece il vero sesto senso?
“Il senso dell’immortalità, diceva Gianni. Noi abbiamo cinque sensi e in cucina è meraviglioso fare esperienze sinestetiche. Ma quale è l’obiettivo? Quello di andare oltre, trovare il senso che muove i cinque sensi. È la parte animante, la parte della luce vera, quella che fa vibrare. Questo è il sesto senso, l’intercettare la vibrazione prima ancora che nasca”.
“Il poeta è colui che esprime
la parola che tutti avevano sulle labbra
e che nessuno avrebbe detta”.
Giovanni Pascoli.
PH Credits: Marco Peruzzo
PH Credits: Sergio Coimbra