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La Peca: l’impronta di qualità, gusto ed eccellenza dei fratelli Portinari

Raffinata, elegante: ogni oggetto e ogni particolare sono studiati nei minimi dettagli, ma nulla di asettico. A La Peca l’atmosfera è unica, calda, si respira aria di famiglia nonostante le due stelle Michelin che, da ormai 12 anni i fratelli Portinari, Nicole e Pierluigi, mantengono con passione e duro lavoro.
La storia Portinari nasce a Lonigo, in provincia di Vicenza. “Siamo cresciuti in macelleria. Sia nostra madre che nostro padre ne avevano una, abbiamo costantemente respirato cibo e materia prima, ancor più da quando nostro padre ha affiancato all’attività di famiglia una gastronomia dove anche noi abbiamo lavorato. Io ero in cucina e mio padre era al banco, sin d’allora io e mio fratello abbiamo capito che il cibo e la convivialità erano la nostra passione e sarebbero state la nostra vita. L’idea di aprire un nostro ristorante è arrivata con l’acquisto di questo locale, un tempo locanda. L’abbiamo svuotata e trasformata perchè avevamo l’ambizione di fare qualcosa che andasse oltre: preparare solo il cibo per la gastronomia non ci bastava più. L’ambizione era di creare qualcosa che qui non c’era, che si staccasse da trattorie e agriturismi dei dintorni. Volevamo un ristorante in cui ci fosse un bel tovagliato, una bella posateria, una bella cristalleria e, soprattutto, un servizio unico. Siamo partiti senza grandi aspettative, però volevamo mantenere un target di un certo livello e piano piano siamo cresciuti e siamo arrivati a realizzare quello che La Peca è oggi”.

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Hai avuto esperienze in altri ristoranti prima di aprire La Peca o la formazione è tutta autodidatta?
Abbiamo aperto nel Dicembre del 1987, ho fatto uno stage da Alain Ducasse nel 1989 e poi un altro da Arzak in Spagna. In due tempi diversi queste esperienze mi hanno dato molto, soprattutto mi hanno fatto capire quello che era il progresso tra i fornelli. Proprio per questo mando in giro per il mondo a fare stage i ragazzi della mia brigata e, devo dire, che tornano con nuove idee e tanta voglia di sperimentare. Pierluigi, invece, ha sempre avuto passione per l’accoglienza o meglio riusciva più di me a creare quell’atmosfera “magica” e accogliente in sala, a rapportarsi con empatia e affabilità con i clienti. Mio fratello si occupa anche della cantina e già in tempi non sospetti siamo partiti con i vini biodinamici. Oggi abbiamo circa 2400-2500 etichette con circa 8-9000 bottiglie. La cantina è sempre in continua evoluzione. Nel 1992 ho chiesto a Pierluigi di darmi pure una mano in cucina perché il lavoro aumentava, così ha cominciato a cimentarsi con i dolci. Da tempo della brigata fa parte anche Martina una pasticcera professionista, ma Pierluigi ogni tanto ci stupisce con alcune sue preparazioni. Adesso il sommelier è Matteo Bressan, Gigi segue la sala, mentre Cinzia, mia cognata, si occupa di quello che è il servizio.

Ha un particolare significato il nome del vostro ristorante?
La Peca vuol dire impronta. La zona dove si trova il ristorante a inizio ‘800 era frequentata da diversi briganti, non c’era ancora il convento dei frati che sorge qui vicino, chi bazzicava qui lo faceva con l’intenzione di cercare di rubare una gallina o qualche altro animale per poter portare a casa qualcosa da mangiare. In questi tentativi di furto d’inverno i malintenzionati lasciavano sul terreno coperto di neve le loro impronte, per questo abbiamo deciso di chiamare il ristorante “La Peca”. La scelta di questo nome ce l’ha suggerita uno storico, il professor Mazzari. Noi siamo partiti da questa storia come simbolo, però, anziché l’impronta del piede abbiamo scelto quella della mano. Ci sembrava più adatta al nostro progetto. Il nome “La Peca” delinea anche la filosofia della nostra cucina, ossia la voglia di rimanere legati al territorio dove ci troviamo.

Il vostro rapporto con il territorio quindi è molto stretto?
Ci teniamo molto a valorizzare il territorio in cui ci troviamo e a cui siamo legati. Da anni lavoriamo con contadini e allevatori e con loro abbiamo stretto forti legami per assicurarci sempre l’approvvigionamento di prodotti freschi e stagionali che seguono i ritmi della natura. Conosciamo perfettamente come vengono allevati gli animali di cui utilizziamo le carni per realizzare i nostri piatti: dal cinghialino al pollo, alla faraona, all’anatra. Siamo poi in stretto rapporto con due contadini che ci forniscono le verdure stagionali. Ai nostri clienti cerchiamo di trasmettere la saggezza di consumare i frutti stagionali. Questo è uno dei nostri capisaldi: quando si sceglie materia prima stagionale, il prodotto dà il meglio di sé e lo si acquista al prezzo più giusto. Ciò non toglie che creiamo e ci piace realizzare anche pietanze che derivano da altre culture, ma in questo caso approfittiamo più delle tecniche che non delle materie prime esotiche. Facciamo una continua ricerca su quello che è il nuovo, ci focalizziamo molto sulla parte olfattiva che a volte, a mio parere, viene a mancare in certi piatti.

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Come nascono le tue ricette?
Coinvolgo i ragazzi della brigata, le vediamo assieme, le studiamo a tavolino poi vengono provate e riprovate fino a che non escono come era nella nostra aspirazione. Lascio molto spazio ai miei collaboratori, anche se la filosofia di base rimane la stessa, vale a dire che il piatto realizzato deve essere poi “benedetto” da me e mio fratello. In cucina si lavora, si crea e si trasforma assieme: in brigata c’è davvero una bella armonia. Abbiamo un filo conduttore che non si deve spezzare. Circa vent’anni fa, si faceva un grande errore: quando veniva lanciata una moda tutti la seguivano e questo faceva perdere l’identità o comunque la oscurava. Questo modo di procedere portava a perdere clientela. I commensali più curiosi, i gourmet, il giornalisti magari hanno voglia di provare cose nuove, ma la clientela abituale, che è lo zoccolo duro, non ama questo perchè se si è innamorata della tua cucina, è quello che vuole. Non intendo che si debbano ripetere gli stessi piatti all’infinito, ma bisogna sempre mantenere il proprio stile, la propria identità. Non c’è una metodologia fissa nella creazione dei piatti. A volte c’è un ingrediente che vuoi utilizzare e ti focalizzi su quello. Adesso, per esempio, tra le ultime novità abbiamo trovato degli agnelloni, allevati nella zona di Padova da un ragazzo che qualcuno definirebbe “folle”. In 36 ettari alleva 102 capi sempre all’aperto, sia d’inverno che d’estate, quindi mangiano solo erba fresca, pertanto stiamo lavorando molto con lui e utilizzando la sua materia d’eccellenza. Si tratta di una razza di agnello che viene dalla Scozia e dall’Inghilterra, sono molto grandi, ma hanno una carne molto delicata che non ha quel gusto forte, hanno cosce enormi che arrivano a pesare anche a 40-45 kg. Stiamo lavorando su queste particolarità, perchè non puoi comprare la singola coscia o il carré, ma l’animale intero, stiamo elaborando un menu che sfrutti tutti i tagli anatomici dell’animale. Altre volte magari si va al mercato e si trova una verdura o una frutta della nuova stagione la guardi, la annusi, la assaggi e fai partire un piatto da lì. O ancora il piatto nasce da un’idea che è nel cassetto da tempo. Un giorno ti svegli e dici caspita mi piacerebbe elaborarla, non ci sono riuscito l’anno scorso riprendiamola in mano ora, ricominciamo a lavorarci sopra. Si va avanti anche 3 o 4 anni a studiare un piatto e poi al quarto anno per una tecnica che hai visto o per l’idea che ti è brillata in testa
arriva il piatto del desiderio. Il menu lo cambiamo ogni due mesi circa, inserendo creazioni nuove.

Quale pensi sia il piatto più rappresentativo de La Peca?
Questa risposta è un po’ difficile. Considerati i tanti anni di attività ne abbiamo diversi. Uno dei piatti fissi in carta è nato dopo l’esperienza in Spagna: è il gelo di acqua tonica, praticamente questa lingua di acqua tonica e lime sulla quale vengono posizionate tre tartare di gambero, di scampo e di canoce, poi viene vaporizzato uno spray di gin. I bigoli con le sarde sono un altro piatto storico, in menu da oltre 20 anni, ha subito qualche cambiamento nel tempo, ma la base è quella: gelato di cipolla, bigoli, alici fresche, acciughe. Altro piatto ricorrente, soprattutto in questo periodo, è il fiore d’uovo: un uovo che viene racchiuso con il tuorlo all’interno crudo poi servito con tartufo, fonduta di Asiago e crema di spinaci. Anche gli spaghettoni alla carbonara di capesante e tartufo bianco fanno parte della nostra identità.

L’ingrediente che più ami lavorare?
Sono partito macellaio, quindi la carne e in particolare la selvaggina. La carne è il massimo da lavorare anche se comunque i consumi si sono abbassati molto negli ultimi 10 anni. Attualmente sta riprendendo un po’ la selvaggina, probabilmente perchè non è possibile allevarla, non ha grassi, non ha mangimi al suo interno e le persone sono più portate a sceglierla. Pasta e risotti sono anche la mia passione, penso che nella mia carriera avrò fatto ormai 200-250 tipi di risotto, a ogni stagione ne ideo almeno uno di nuovo.

Come ci sente a detenere da tanti anni 2 stelle Michelin?
La prima è arrivata nel 2001, la seconda nel 2008, sono ben 19 anni che otteniamo un riconoscimento dalla “Rossa”. C’è chi ci augura la terza ma sarebbe una bella responsabilità. Tre anni fa io e Pierluigi abbiamo deciso di concederci più spazio per la vita privata. Per questo ristorante ci siamo sacrificati molto, abbiamo limitato il tempo dedicato alla nostra famiglia per le nostre ambizioni, per il nostro piacere, per quello che ci piaceva. Oggi troviamo giusto cercare di tirare un po’ i remi in barca, non da un punto di vista lavorativo nel senso che ci mettiamo meno impegno o siamo meno entusiasti, ma abbiamo deciso di non spingere più come prima. Non ti nascondo che l’ambizione alla terza stella ci sarebbe, ma per come siamo noi implicherebbe maggiori responsabilità e ci porterebbe ancora una volta ad essere oberati di lavoro e a tornare a perderci tutto quello di bello che c’è al di fuori della cucina, soprattutto i nostri affetti.

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