intervista a Simone Belardelli food lifestyle

Le botteghe sono la voce del territorio. L’intervista a Simone Belardinelli della Latteria del Bela

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A cura di Chiara Mariani

Per gli appassionati di enogastronomia, per gli amanti della buona tavola e per le papille gustative dei goduriosi, entrare in un bottega di prodotti tipici è come entrare in una wunderkammer piena di meraviglie e tesori da scoprire. E Assaggiare.
Sarà per questo che quando sono entrata per la prima volta nella Latteria del Bela, ero trepidante come la mattina di Natale. Salumi, formaggi, legumi, cereali, lievitati e conserve. E poi ancora vini, distillati e tutto il meglio delle Marche. Siamo a Senigallia e Simone Belardinelli qui è un personaggio conosciuto, cuoco e ristoratore da più di 35 anni, appassionato di prodotti alimentari da sempre.
Ha deciso nel 2020 di rilevare una bottega nel cuore della città per raccontare il meglio del suo territorio e sostenere i piccoli produttori, che nella grande distribuzione non trovano spazio. E che quindi rischiano di scomparire. Questa è la virtù delle botteghe, sono il luogo dove è possibile fare un racconto dei prodotti, dei nomi e dei volti che ci sono dietro, della passione che ogni giorno alimenta il lavoro agricolo, zootecnico e di cura continua della terra e delle sue tradizioni.

Come nasce il desiderio di aprire una bottega?
“Questo sarebbe stato il mio trentasettesimo anno in cucina, se non avessi aperto la bottega, ho avuto un paio di ristoranti e lavorato come chef nella ristorazione. Ho sempre avuto una grande passione per la materia prima quindi nel mio lavoro e quando facevo consulenza per le aperture di nuovi locali, ho sempre creduto nell’importanza di non fare tanti piatti ma di selezionare una qualità alta dei prodotti. Poi è capitata questa occasione, io ero stanco del mondo della ristorazione e l’ex proprietaria di questa bottega era pronta ad andare in pensione. I fornitori con cui trattava li conoscevo già e per me, che sin da giovane andavo nei caseifici a vedere come si faceva la ricotta o nei frantoi a veder fare l’olio, aprire una bottega di materie prime di grande qualità è stato naturale, è la mia dimensione. Qui non manipolo niente ma faccio esclusivamente ricerca, la maggior parte del mio lavoro si svolge in inverno e primavera quando vado in giro per le aziende a cercare nuovi prodotti”.

Simone Belardelli intervista food lifestyle

Come cerchi e selezioni i produttori?
“Circa il 70% dei miei prodotti proviene dal territorio marchigiano, abbiamo la fortuna di essere una regione che ha il mare, la collina e la montagna quindi abbiamo un’ampia biodiversità di prodotti. Lavorando da tanti anni nell’ambiente e girando tra piccole realtà sono entrato in un circuito di passaparola continuo per cui vado da un produttore di fave e mi parla di uno che fa formaggio, poi vado da quello che fa il formaggio e mi racconta di un agricoltore che fa un altro prodotto. Sono circuiti di eccellenze marchigiane composte da persone che non ragionano in termini di fatturato, ma in virtù di una ricerca spasmodica sul prodotto, dell’amore e del rispetto del territorio”.

Biologico, biodiversità, filiera corta cosa significano per te?
Quando è esploso il discorso del biologico le prime a certificarsi sono state le grandi aziende, perché bastava seguire degli standard sui prodotti e sui mangimi. Ma in realtà qui tutte le piccole aziende che fanno un certo lavoro sul prodotto e sulla terra sono biologiche, anche se non al 100% e se non hanno le certificazioni. Esistono tante aziende che fanno colture con la lotta integrata, come ad esempio La Viola che pianta insieme ai legumi i cereali, cosicché si cedano a vicenda sali minerali e altre sostanze, e molte aziende collaborano con le Università di Agronomia e Agricoltura per sperimentare ed efficientare. C’è un’attenzione che va oltre il concetto di biologico, è connessa al rispetto e alla salvaguardia della propria terra e della natura. Dieci anni fa si cercava l’azienda con il marchio biologico mentre oggi si cercano realtà autentiche, che lavorano con buon senso e rispetto. Anche perché richiedere la certificazione biologica significa affrontare una spesa che alcune piccole aziende non possono permettersi. Per fare un esempio c’è una un’azienda piccolissima, con le casottine delle api nel bosco del Montefeltro che è un territorio all’80’% incolto e incontaminato, che mi spiegava che per per la loro realtà la spesa per la certificazione è eccessiva, ma io so che quel miele è naturalmente biologico. Questo per dire che, oltre alle certificazioni, è importante andare a conoscere le persone e come lavorano”.

Nelle grandi città, dove è più facile che il consumatore non conosca la provenienza di quello che mangia, il racconto della filiera è molto importante. Più in generale è palese negli ultimi anni che bisogna dare voce ai piccoli produttori affinchè la consapevolezza alimentare aumenti e così la tutela delle realtà più piccole.

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In che modo le botteghe sono una parte importante di questo meccanismo?
Lo sono perchè riesci a raccontare le persone e il loro lavoro, ma il più delle volte il valore di un produttore viene percepito davvero quando si assaggia il suo prodotto. Ho avuto la grande fortuna di essere cresciuto in un’azienda agricola, avevamo ettari di campi, maiali, conigli, galline, mucche e la mia famiglia produceva anche vino e olio. Per questo motivo ho potuto registrare nella testa i sapori originali del ragù della nonna, delle verdure, del maiale come si lavorava artigianalmente un tempo. Ritrovarli quando vado in giro in cerca di prodotti è una conquista perché oggi i sapori si sono in parte modificati, un certo tipo di politiche hanno portato ad un appiattimento dei sapori e il lavoro che molti di noi del settore cercano di fare è preservare e promuovere chi col suo lavoro propone i sapori autentici. Negli anni ‘30 e ‘40 era necessario selezionare i semi che producevano di più perché era l’epoca dello sviluppo economico e demografico, ma oggi che c’è sovrapproduzione di tutto si può tornare ad produzione più sana e lenta, ridurre l’utilizzo dei pesticidi e delle colture ogm, ritrovare semi e grani antichi. Questo incide tuttavia sul prezzo finale perché fare questa ricerca e lavorare in questo modo è più costoso, in un periodo di crisi economica bisogna provare a trasmettere che è meglio mangiare di meno, ma di qualità”.

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Oltre ad educare al gusto e a riconoscere il giusto valore di chi fa un certo tipo di produzione, c’è la necessità di educare anche a diversi volumi e a non avere sempre tutto.
Certamente, perché noi siamo più piccoli rispetto ad un supermercato e i nostri produttori non fanno quantità enormi, in genere la produzione riesce ad essere continuativa ma capita di non arrivare a fine anno col prodotto. Ad esempio collaboro con una piccola azienda locale che fa succhi di frutta ma è capitato che a metà anno quello al melograno fosse terminato, perché sono produzioni limitate. Un altro esempio riguarda il miele, nelle Marche negli ultimi anni c’è stata, per cause climatiche, l’80% in meno della produzione di Miele di Acacia tant’è che è stata attestata come una calamità. Pertanto offrire un buon miele artigianale locale è difficile, bisogna far capire al cliente il perchè e soprattutto la differenza con il miele di cui al supermercato trova scaffali pieni“.

E visto che giustamente il Bela ci ha detto che a volte il racconto migliore lo fa il prodotto stesso, ha aggiunto una piccola proposta aperitivo per assaggiare prima di comprare. Proposta classica e intramontabile: taglieri di salumi e formaggi, focacce farcite (la ricetta della focaccia l’ha perfezionata personalmente negli anni), vini e birre del territorio.
Andate sul sicuro anche a occhi chiusi ma questi gli imperdibili: i paccasassi di Rinci, il salame della Salumeria dell’Abbazia, i legumi di La Viola e i vini, le bolle soprattutto, di Mencaroni. E già che state riempiendo la pancia e il bagagliaio, se potete fatelo il mercoledì, perché è giornata di Porchetta alla Latteria del Bela e il crack della cotenna varrà i chilometri, e una lacrima (di Morro d’Alba).

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