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Dalle strade alle stelle (Michelin). Lo street food asiatico tra successi e fallimenti

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a cura di Maria Luigia Vurro

La Guida Michelin, considerata la Bibbia di ogni critico enogastronomico nonchè un salvifico strumento attraverso il quale un food lover si orienta per scovare i ristoranti migliori al mondo, non sempre mostra il suo lato benevolo. Superata da decenni la fama di semplice guida per gli automobilisti francesi, oggi è un metro di giudizio importante, se non addirittura insindacabile, del valore di un qualsiasi servizio di ristorazione. Persino i food addected meno esperti non possono negare che quella stella messa accanto al nome di un ristorante, ovunque esso si trovi, sia sinonimo di qualità, eleganza e personalità.
Ma chi pensava che, una volta ricevuta la stella, un ristorante avesse raggiunto l’apice del successo, in realtà si sbagliava: il riconoscimento Michelin è sempre e solo l’inizio di un percorso fortunato che può cambiare direzione in qualunque momento. Una brusca ascesa, seguita da una caduta altrettanto improvvisa, che ha finito per segnare la storia di una categoria abbastanza nuova: lo street food.
Fino a prima del 2016, il “cibo di strada” era un settore che per espansione, caratteristiche e varietà di tradizioni culinarie, si trovava fuori dalle logiche di eccellenza della cucina stellata. E proprio per questo motivo, persino al malese Chan Ho Meng suonò bizzarra la notizia dell’assegnazione della prima stella Michelin al suo chiosco, Hawker Chan, situato nel quartiere di Chinatown, a Singapore.
Chan, che neanche aveva mai preso in mano un’edizione cartacea della Guida Michelin, si ritrovò di punto in bianco ad essere premiato con la suddetta onorificenza nella lussuosa cornice del Resort World Sentosa, dopo aver trascorso quasi trent’anni della sua vita a spaccarsi la schiena cucinando al mercato di Chinatown. Per anni, i suoi noodles con pollo e salsa di soia sono stati considerati il piatto stellato più economico al mondo: solo 2 dollari e 50 a porzione. E, a detta di chi li ha assaggiati in passato, valevano più del triplo del loro valore monetario. Lo chef malese si era persino impegnato davanti ai media occidentali ad onorare quel riconoscimento, continuando a produrre il pollo marinato migliore al mondo, per contrastare il famigerato fried chicken delle catene americane di fast food diffuse in tutto il globo.
Un impegno che Chan ha strenuamente onorato fino al settembre 2021, mese in cui la Michelin, che gli aveva messo le ali cinque anni prima, ha estromesso l’Hawker Chan dalla guida annuale di Singapore. Una decisione inaspettata non solo per Chan, ma anche per la maggior parte dei critici gastronomici che avevano seguito e documentato la storia dello chef.
La scelta della Michelin non ha ancora una spiegazione ufficiale, ma molti parlano di “difesa degli standard di eccellenza della guida”, quasi sottintendendo che la qualità dello street food proposto da Chan Ho Meng sia drasticamente colata a picco negli anni, complice l’apertura di altri ristoranti in giro per l’Asia che non gli avrebbe permesso, secondo i critici più informati, di seguire da vicino la qualità della sua cucina.
Due anni dopo la prima stella Michelin dello street food, nel 2018, i riflettori si erano accesi sulla Thailandia e sulla chef Supinya Junsuta o Jay Fai, come la chiamano gli avventori del suo chiosco. Molti food lovers la riconoscono per i suoi immensi occhiali da aviatore, che indossa quando prepara il suo signature dish, l’omelette di granchio, oltre che per la sua serietà e caparbietà nel volersi occupare di persona di ogni piatto che esce dalla sua cucina. Il Jay Fai negli anni sembra non essere cambiato molto nell’aspetto: sedie e tavoli di plastica, stuoli di ventilatori e code chilometriche sono un paesaggio usuale per chi si trova a passarci accanto. Solo i prezzi dei piatti della chef thailandese, soprattutto quello dell’omelette di granchio, si sono adeguati all’onorificenza più alta della cucina mondiale. Per il resto, la qualità del cibo non è cambiata, tanto che Jay Fai non solo è ancora la regina dello street food thailandese nell’ultima guida Michelin, ma ha anche vinto il prestigioso Icon Award for Asia nel 2021.
Curiosamente, da Chan Hon Meng in poi soltanto l’Asia è entrata a far parte della “costellazione Michelin” in materia di street food: sul sito ufficiale della guida, alla voce “Street Food”, sono elencate solo ed esclusivamente località asiatiche. Da Singapore ad Hong Kong, da Macao alla Thailandia, le maggiori città asiatiche brulicano di chioschi con riconoscimenti prestigiosissimi. Ma a cosa è dovuto questo successo?
Sarebbe semplice rispondere citando la qualità delle materie prime, il fatto che la maggior parte degli ingredienti dello street food asiatico sono a km 0 e l’incredibile rapporto qualità-prezzo dei piatti serviti. Ma bisogna tenere in considerazione il “fattore necessità”. Se nelle città più popolose dell’Impero Romano, come ad esempio Pompei, i cosiddetti thermopilia (i primi chioschi che preparavano e vendevano cibo caldo) riscuotevano un enorme successo, era perché la maggior parte delle case dell’epoca non disponevano di una cucina, rendendo praticamente impossibile per il plebeo medio l’atto del cucinare pasti e consumarli a casa propria. Allo stesso modo, in molte grandi città asiatiche che stanno subendo uno sviluppo edilizio e infrastrutturale rapido, tra cui spiccano di certo Bangkok e Singapore, gli appartamenti dotati di una cucina costano molto di più di quelli che non ne hanno una.
Questo ha portato la quasi totalità della popolazione asiatica a rifugiarsi nel confortevole abbraccio dello street food locale, che ha un forte legame con la storia recente e la tradizione dei popoli asiatici che in queste città vengono a stretto contatto: migrazioni, colonizzazione occidentale e bisogno atavico di mantenere salde, di far conoscere e condividere le proprie radici culturali e gastronomiche, convivono in pochi metri quadrati di chioschi e carretti all’aperto o nei mercati cittadini.

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Lo street food asiatico è ora più che mai un simbolo di condivisione di esperienze, tradizioni culinarie e culture, nonché di convivialità e comunità, parole che nel civile mondo occidentale creano un senso di meraviglia e, al tempo stesso, di sdegno. Dopo una lunga pandemia globale in cui lo street food è stato messo in ginocchio da decreti, misure sanitarie stringenti e ripetuti lockdown, i food truck stanno tornando al centro della ristorazione occidentale grazie all’interesse degli chef stellati. Da Heinz Beck e il suo “Follow the Star” in Sardegna al Rolling Star, “il cibo di strada gourmet” dello chef Felice Lo Basso, nato diversi anni fa, sta ora risorgendo dopo una pesante crisi. Eppure, sembra sempre che lo street food occidentale sia alla ricerca di qualcosa di diverso da sé, dalla propria storia e dalla propria tradizione. Una ricerca che ci porta sempre nell’emisfero opposto al nostro.
Noi occidentali ammiriamo la tradizionalità e l’innovazione della cucina asiatica, sia che venga da un ristorante stellato o da un chiosco di Singapore, ma abbiamo dimenticato in fretta che gli ingredienti più importanti nell’esperienza legata al cibo sono consapevolezza di sé e del legame con le proprie radici e desiderio di condividere la propria identità.

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